Con un rapido attraversamento ci portiamo nel nord-est italiano. Nicole Coceancig è una giovane cantautrice friulana, che recentemente ha pubblicato “Zohra”, un concept album acclamato per la sua potenza e semplicità, e ha ricevuto il Premio Ciampi 2024. Il suo stile musicale è caratterizzato da una voce espressiva che esplora temi di realtà e umanità, con un suono curato dalla produzione di Leo Virgili.
Vuoi raccontare il tuo progetto musicale?
L’album “Zohra”, prodotto da Nota Rdecords, racconta la storia di una ragazza quattordicenne che fugge dal Pakistan per inseguire il sogno del riscatto, della libertà e dell’emancipazione. È un concept album che intende raccontare il viaggio tramite la rotta balcanica, “The game” per coloro che lo compiono, che porterà Zohra ad attraversare i “confini”, gli ostacoli, le violenze, dal Pakistan al Friuli Venezia Giulia. Ogni brano, oltre al susseguirsi del viaggio, racconta un micro-tema del fenomeno della migrazione attraverso la rotta balcanica (i trafficanti di esseri umani, i mezzi di trasporto che per brevi tratti occorre utilizzare, i rapporti tra persone, le violenze di vario genere…), argomenti che ho potuto studiare e osservare da vicino durante una lunga esperienza vissuta all’interno di una comunità per MSNA. “Zohra” è una storia di coraggio che cerca di dare voce a tutte quelle donne che in questo momento, come Zohra, vorrebbero partire ma che nella realtà non possono farlo perché non
possono partire da sole. Possono farlo in quanto madri, in quanto figlie o in quanto mogli, sempre, quindi, accompagnate, ma non possono farlo in autonomia. Il concept è un intreccio di avvenimenti, luoghi e situazioni diverse che hanno per obbiettivo quello di abbattere barriere, confini fisici, mentali, politici e umani, attraverso la storia e la forza di una ragazza. Leggi e politiche che ostacolano il naturale e millenario migrare dell’essere umano che, alla prova dei fatti, risultano perdenti di fronte all’audacia di una giovane donna.
Cosa significa per te cantare in friulano? Come ti collochi rispetto ad altre esperienze di nuova canzone friulana? Penso ad Alvise Nodale, Franco Giordani, Massimo Silverio e, naturalmente, al veterano Lino Straulino?
Non ho sempre saputo che il friulano fosse la mia lingua madre: l’ho capito più tardi, come si capisce qualcosa che è sempre stata lì ma che non avevi ancora imparato a nominare. E da quel momento, usarla per cantare è diventato un modo per riappropriarmene e recuperare il tempo perduto. Resistenza, sicuramente prima di tutto - che poi è un concetto che di per sé è sempre presente nei progetti che faccio. È una lingua che resiste: alla dimenticanza, all’omologazione, al silenzio imposto. E con Massimo, Alvise e non solo, nel nostro piccolo o grande che sia, resistiamo con e per lei. Ed è stato Lino, a suo modo, che me e ce lo ha insegnato. Ad Alvise (che fa parte del progetto, quindi sarà con me sul palco nei tre giorni di
Premio Parodi), Lino e Massimo devo molto. Sono stati tra i miei insegnanti, insieme a Leo Virgili, mio fedele collega e fratello, ognuno a modo proprio. Per fortuna, differentemente da quanto a volte succede in questi casi, si è tutti molto amici e ci si supporta a vicenda, con partecipazione, impegno e affetto.
Cosa presenti al Parodi?
“Silos”, un titolo che fa riferimento all’ormai tristemente conosciuto Silos di Trieste. Il Silos di Trieste è un edificio costruito nell’Ottocento con la funzione di deposito di granaglie, che poi è diventato, nel secondo dopoguerra, un centro di accoglienza per profughi istriani, dalmati e fiumani. Peccato non venga più riconosciuto per questa sua storia già di per sé controversa; adesso è tristemente conosciuto perché diventato il rifugio per migliaia di richiedenti asilo provenienti dalla rotta balcanica, che in attesa di riconoscimento sono costretti a condizioni disumane. Un rifugio, però, in condizioni di completo degrado; privo di pavimento, di servizi igienici e invaso da topi e fango. Ma non è questo il solo tema del brano. Quando Zohra viene a conoscenza del Silos, pensa a Maria, la madre di quest’Occidente cristiano. Il Vangelo racconta che 2025 anni fa a Betlemme, terra senza Pace, non ci fu spazio dignitoso per ospitare un anziano uomo e una giovane donna partoriente. Anzi, ci fu il rifiuto ad ospitarli all’interno di una casa. Non è cambiato poi molto allora se oggi, 2025 anni più tardi,
decine di persone sono costrette ad accamparsi nel freddo, nel fango, condividendo il ghiaccio con animali di ogni genere. Verrebbe quasi da dire, se si potesse, che nemmeno la religione e i testi sacri hanno aiutato poi l’evoluzione dell’umanità. Non ci fu posto per Maria, madre di Cristo, non c’è posto per Zohra. Il brano dunque, attraverso un flusso di coscienza di Zohra con Maria, racconta un sistema che non è cambiato: quello della diffidenza verso gli ultimi, i deboli, i poveri. Quello stesso sistema che relega chi non ha nulla nei peggiori posti, probabilmente lontano dagli occhi di una società che ancora distingue gli esseri umani per ciò che possiedono e per come appaiono, che continua a mettere gli uni contro gli altri tra chi non ha e non può, mentre in pochi stanno a guardare o si accontentano di non vedere, giudicando col dito puntato, dimenticando, come si dice, le 3 dita puntate contro sé stessi.
Si può rinnovare la tradizione musicale conservando modalità stilistiche che non conducano per forza a forme mainstream?
Mi verrebbe da dire che, forse, questo è l’unico modo. Quindi si, si può – e si deve. Rinnovare la tradizione senza piegarla al mainstream lo vedo come un atto culturale e, perché no, anche politico. La tradizione non è un museo: è voce viva, è linguaggio collettivo. Ha senso solo se continua a parlarci, anche oggi, anche nelle identità marginali, nelle lingue che resistono. Nella mia visione, che poi è simile a quella dei sopracitati Silverio, Nodale e il Maestro Straulino, la musica tradizionale non può e non deve essere un souvenir folkloristico, bensì strumento per dire qualcosa anche nel presente con parole e musiche di qualcun* del passato. E se questo vuol dire disobbedire a certe forme musicali dominanti, ben venga. Si può essere radicali senza essere nostalgici, innovando e restando fedeli.
Il Premio Parodi è un contest intestato alla “world music”? Come definisci questa categoria? In che misura ti ci rispecchi?
Questa è una domanda molto interessante, e ammetto per me difficile. Ho sempre inteso la World Music come un grande contenitore nato per dare visibilità a musiche che non rientravano nei circuiti commerciali dominanti. E di per sé questo è fantastico. Oggi però può voler dire molte cose: a volte un ponte tra culture, altre volte un contenitore un po’ generico. Diciamo così: se con World Music si intende una musica che attraversa confini, che afferma le radici, che sfida le regole del mercato globale… allora si, ci sto dentro. E ne sono felice.
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