Di isola in isola, ci portiamo in Sicilia. Vincitrice del Premio Ethnos Generazioni nel 2024, Luisa Briguglio è originaria di Messina, è un’artista versatile che si muove tra musica, danza e teatro. Ha appena pubblicato “Truvatura”, per Liburia Records.
Raccontaci della tua musica e del tuo nuovo progetto discografico.
“Truvatura” è il culmine di un processo di gestazione di circa cinque anni. Cercavo un nome che mettesse insieme canzoni che hanno origini e storie molto diverse fra loro: composizioni originali, traduzioni, testi in dialogo con i poeti antichi. Il titolo in siciliano, che ho “trovato” alla fine, indica un tesoro leggendario nascosto in una grotta. Già così, la parola suggerisce l’idea di un bottino di oggetti preziosi accumulati nel corso del tempo. Ma c’è qualcosa in più. Nella desinenza -ura, verosimilmente un participio futuro latino, possiamo leggere un anelito che per me è alla base di tutta la poetica del disco: “le cose da trovare, le cose che saranno trovate”. Si parla di conflitti, paure, dubbi, amore, ma soprattutto di desiderio ed è su questo slancio ipotetico che si innestano tutti e otto i brani.
Cantare e, aggiungo, scrivere in siciliano per me hanno un valore affettivo e un valore politico - e i due si intrecciano tra loro. Il siciliano è la lingua delle emozioni, una lingua familiare e ancestrale. L’italiano è una lingua splendida che amo ed è la lingua nella quale penso e mi esprimo. Ma non bisogna dimenticare che l’italiano, storicamente, è una lingua imposta, che in un secolo e mezzo ha quasi cancellato l’uso dei dialetti. Cantare nella lingua di mio padre e mia madre, dei miei nonni, contenuta nel mio patrimonio genetico, mi permette di trasfigurare, di uscire dalla mia storia personale per unirmi a quella, più grande e profonda, della mia terra natale. L’italiano, per me, è una lingua più razionale del dialetto. Quello che scrivo in dialetto, non potrei scriverlo in italiano. Il dialetto cambia tutto nella maniera di scrivere e raccontare: dalla metrica al vocabolario, dal tono alle intenzioni. Cambia l’immaginario, la maniera di esprimere un sentimento o raccontare una storia.
Cosa presenterai al Parodi?
“U ‘nnamuratu e a morti” si ispira a un romance spagnolo anonimo del XV secolo dal titolo “El enamorado y la muerte”. Già dal titolo si intende il topos antichissimo di amore e morte, qui declinato nella forma di un racconto. Si tratta dell’incontro tra un innamorato e la morte, che gli annuncia in sogno il suo arrivo imminente. L’innamorato implora un giorno di vita in più ma, concessagli solo un’ora, si precipita a casa della sua amata per trascorrerla insieme a lei. Dopo una breve e ansiosa conversazione, la giovane decide di calare una corda di seta dalla finestra affinché lui la raggiunga. La corda si rompe… e la morte, inesorabile, arriva. Ci sono molte possibili letture, ma la canzone non ce ne dà una sola né ci dà una morale. Ci racconta la storia così com’è. L’impianto fortemente teatrale del testo originario e l’alta concentrazione di opposti - il comico nel tragico, l’assurdo nel quotidiano, il lirico nel prosaico - mi hanno attirata da subito ed è quello che ho cercato di valorizzare e rappresentare a mio modo.
Si può rinnovare la tradizione conservando modalità canore e stilistiche che non conducano per forza a forme diluite, mainstream?
Questa è una bella domanda e io credo che la risposta sia sì. E lo dico pensando a molti esempi, italiani e non, che ci mostrano che è possibile. Ovviamente non è un cammino scontato né semplice. La tradizione può costituire una preziosissima fonte di ispirazione per chi crea, ma se ingabbia in una forma rischia di diventare l’altra faccia del mainstream. Il punto non è né tradire la tradizione, che è una convenzione ed è in continua evoluzione, né rinnovare a tutti i costi, né declinare la tradizione in una forma che piaccia al mercato. Al di là di ogni ibridazione, credo che cercare di dire ciò che abbiamo da dire rimanendo fedeli a noi stesse, senza fare troppi compromessi, sia l’unica strada possibile.
Il Premio Parodi è un contest intestato alla “world music”? Come definisci questa categoria? In che misura ti ci rispecchi?
L’idea di un progetto solista, poi confluito nell’album “Truvatura”, è nata cinque anni fa. A quel tempo cantavo e scrivevo brani con un gruppo di musica popolare del sud Italia, ma sentivo che quell’etichetta mi stava stretta. Quando ho incontrato Ernesto Nobili, produttore artistico del disco era chiaro per entrambi che il disco avrebbe assunto pienamente la matrice della musica tradizionale, ma avrebbe accolto anche le mie – e le sue – influenze musicali. World music è un’etichetta “ombrello” che oggigiorno raccoglie tante realtà anche molto diverse tra loro. La varietà musicale dei finalisti del Premio Parodi lo dimostra chiaramente. Io mi ci posso rispecchiare nella misura in cui vengono accolte sia la parte identitaria, “world”, sia le peculiarità non world della mia musica.
Ciro De Rosa
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