Di residenza spagnola è anche Neval, musicista e cantastorie curda, cresciuta a Istanbul: un vasto universo culturale dalle influenze globali. La sua cifra stilistica si distingue per l’uso della voce come strumento narrativo, intrecciando poesia e melodia. Il suo album più recente, “Yara” (2024), è stato nominato nella categoria World Music agli Hollywood Independent Music Awards, proseguendo il suo percorso di fusione tra eredità culturale e suono contemporaneo.
Vuoi parlarci del tuo progetto musicale e della tua ultima uscita?
La mia musica nasce dalle mie radici curde ed è stata profondamente influenzata da Istanbul, una città che è diventata una seconda casa per me. Con la sua natura caotica ma accogliente, Istanbul dà il benvenuto a ogni tipo di essere umano, ed è proprio in questa atmosfera di diversità che ho imparato ad aprirmi a voci e influenze diverse. Allo stesso tempo, porto con me le voci della mia città natale, Diyarbakır, con i suoi strati di storia e tradizioni, che restano una parte essenziale della mia identità. Ora vivo a Barcellona, dove lavoro e collaboro in una scena musicale molto aperta e inclusiva, nella quale sento di crescere e allo stesso tempo di re-imparare come artista. La mia ultima uscita, “Yara”, è stata pubblicata dall’etichetta catalana Segell Microscopi. Per me è un lavoro profondamente personale e al contempo una riflessione sulle esperienze umane condivise che trascendono i confini, pur restando connessa a questa nuova città, dove la mia musica continua a trovare echi.
“Yara” (Ferita) parla delle ferite che tutti portiamo dentro di noi: il dolore dell’amore irraggiungibile, l’alienazione, il desiderio inappagato. La poesia è stata scritta da mio fratello, Yusuf Turhallı, le cui poesie compongono la base della maggior parte delle mie canzoni. La nostra collaborazione è nata in modo molto naturale: spesso mi leggeva le sue poesie appena le scriveva, e da lì io iniziavo a trasformarle in musica. Nostra madre ci incoraggiava a scrivere poesie e a leggerle ad alta voce, condividendole con la famiglia e gli amici fin da quando eravamo bambini. Ora capisco che era un modo dolce per esprimere noi stessi e restare connessi con chi amiamo. In Yara, la sua poesia cattura emozioni allo stesso tempo intime e universali, e ho cercato di tradurle in musica. L’ultima frase, “ten ölümdür ben yarayı bilirim” ("la pelle è morte, io conosco la ferita"), è un riferimento al famoso verso della poetessa iraniana Forugh Farrokhzad: “l’uccello può morire, ricordati del volo”. Nel caso di “Yara” questo verso assume una forma più oscura: ci ricorda che mentre il corpo muore, la ferita continua a esistere anche oltre i limiti del corpo. È un’eco più cupa della poesia di Farrokhzad, che suggerisce che dolore e memoria sopravvivono oltre l’esistenza fisica.
Pensi sia possibile rinnovare la tradizione con modi vocali e stilistici che non conducono necessariamente verso forme mainstream?
Credo che il rinnovamento derivi dall’ascolto della tradizione e dal plasmarne la forma attraverso le esperienze personali, permettendole così di evolvere in modo naturale. Per me, la voce è centrale, e attraverso l’unione tra storie personali e tradizioni musicali continuo a trovare la mia voce. Questo processo significa anche essere aperti a nuove forme e suoni, senza però perdere l’essenza da cui la musica proviene. Essere fedeli alle proprie radici non significa ripetere il passato, ma permettere alla tradizione di trovare la propria voce nel mondo di oggi, sia in forme tradizionali che contemporanee.
Il Premio Parodi è un concorso dedicato alla “world music”? Come definisci questa etichetta? Ti ci identifichi appieno?
L’etichetta world music può essere sia limitante che liberatoria. Spesso riduce ricche tradizioni a una semplice categoria, ma allo stesso tempo crea uno spazio in cui voci diverse possono incontrarsi. Io la vedo come una piattaforma per condividere musica profondamente legata all’identità, alla storia e alla cultura, ma allo stesso tempo aperta al dialogo con gli altri. In questo senso, mi identifico con essa, perché il mio lavoro consiste nel dare voce alla mia eredità culturale collegandola però a un pubblico più ampio. Sento che ognuno può riconoscere una parte di sé in questa musica, perché essa racchiude tutte le voci musicali che si trovano al di fuori delle tradizioni dominanti.
Ciro De Rosa
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