Andrea Andrillo – Fortunate Possibilità (Edizioni Abbà, 2024)

A margine del concerto tenuto lo scorso giugno durante i Seminari di Mare e Miniere, abbiamo incontrato Andrea Andrillo, cantautore e autore che negli ultimi anni ha intrapreso un percorso originale tra musica, poesia e impegno civile. La sua voce e le sue canzoni non vivono mai isolate, ma in dialogo costante con altre forme d’arte e con una riflessione più ampia sulla comunità, la lingua e l’identità. Dopo il precedente progetto Prologus, Andrillo torna con un nuovo libro con cd, Fortunate possibilità, realizzato insieme alla poetessa Alessandra Fanti: un lavoro che scava nelle crepe dell’esistenza, nei momenti in cui “la vita ti crolla addosso”, e cerca di trasformare fragilità e cadute in occasioni di consapevolezza. 
Nel corso di questa conversazione, Andrea ci ha raccontato la genesi del nuovo progetto, il suo rapporto con la lingua sarda e con il pubblico, la dimensione corale dei suoi concerti, ma anche le difficoltà di fare musica oggi, tra spazi sempre più ristretti e la tentazione di ridurre i suoni a semplice sottofondo. (S.E.)

Come nasce il libro con cd “Fortunate possibilità”?
L’ho realizzato insieme alla poetessa Alessandra Fanti. Volevamo collaborare da tempo: siamo amici anche nella vita. Lei ha scritto delle poesie bellissime, e a un certo punto abbiamo deciso di chiudere il cerchio tra la poesia che non è canzone e la canzone che non è poesia. Ci siamo focalizzati su quel momento in cui la vita ti crolla addosso. Quando ti cade una tegola in testa hai due possibilità: o dici “Ah,
cavolo, mi è caduta la tegola in testa”, oppure “Ok, adesso ho tutta la testa in testa, devo gestire questa cosa”. Magari non ci dovevi passare, magari sì. Questo è un esempio un po’ scemo, ma serve a dire che ci interessava quel momento in cui la vita perde senso. Ci interessa ciò che ci rende umani, fallibili. Ci interessa quando le cose vanno male anche se fai il possibile. Come in “Rombo di Tuono”: spingersi sempre più in là, senza vivere a metà. E poi, spesso non segni nemmeno, anzi, il più delle volte no. Nel disco ci sono vari personaggi. L’Albatros, per esempio, che viene sbattuto sulla chiglia della nave e deriso. Questo re dell’azzurro, come scrive Baudelaire, viene umiliato da creature miserabili col cuore piccolo: “les hommes d’équipage”, marinai che hanno bisogno di sentirsi forti a spese di un essere meraviglioso. Ci interessava qualcosa che riguarda tutti, perché se parli solo di te, il senso è sempre uguale.

Anche il precedente “Prologous” era un libro con cd…
“Prologus” lo avete recensito su Blogfoolk come “poetico-politico”, ed è vero. Era una piazza virtuale dove volevo parlare di noi, partendo dalle canzoni, ma anche prestando la voce ad autori che stimo. Sai che la Sardegna è un mondo a parte, con chiaroscuri fortissimi. Michele Palmas mi disse: “Perché non fai un libro?” Io risposi: “Un libro? No.” Ma poi mi è venuta l’idea: chiamare gli autori che stimo e parlare di noi, senza risparmiare nulla. C’è un saggio di Pierfranco Devillas sul diritto alla memoria, uno di Fiorenzo Caterini sul senso di colpa dei popoli colonizzati e sul campanilismo. Francesco Casula ha scritto sulla lingua sarda: dice che il sardo non deve servire a nessuno, non deve essere servo di nessuno. Parte così, ed è meraviglioso. E poi ci sono i racconti sugli stereotipi di Ivo Murgia, a cui ho chiesto: “Fai qualcosa che sgrassi, che alleggerisca”. Ci sono i testi, le traduzioni. Il titolo “Prologus” l’ho scelto perché non voglio essere come il coniglietto “Prologus”, estinto duemila anni fa. Io non voglio essere istinto.

Oltre all’aspetto musicale, colpisce il modo in cui presenti le canzoni in concerto…
Il senso è fare comunità. Il senso è capire cosa ci tiene insieme e cosa ci divide. Quando vedi le persone che ti abbracciano, vuol dire che non hai parlato solo di te, ma anche di loro. Parti sempre da un dato autobiografico, ma quello che fai non deve riguardare solo te. Mettere insieme canzone, poesia, musicisti di estrazioni diverse, acustico ed elettrico, nord e sud, maschile e femminile come in “Impari, in paghe” la canzone con Elisa Carta. In realtà, forse, niente “serve” davvero, ma è un modo per ritrovarsi, in un mondo di profonde solitudini. C’era scritto su un muro, l’ho postato anche sulla mia pagina Facebook: “Tutte queste canzoni che parlano di noi, e noi che non ci parliamo più.” Verissimo. Queste canzoni provano a rimettere insieme le persone, a far nascere una riflessione: chi sei? Perché sei così? Perché a volte ti vergogni di te? Poi, c’è anche il discorso della lingua. Qui spesso ci si vergogna di parlare in sardo, una lingua in estinzione. Ti dicono che sei grezzo, se parli in sardo. Ma anche no! Hai sentito che suoni? Di un’eleganza strepitosa. Io lavoro su quello: suono che ricorda le onde del mare. Quello è il sardo. Quello lo uso io.

E lo connetti ad altre lingue….
Sì. Altrimenti ti potrebbero dire: “Ti vuoi chiudere?” No. Al contrario: autodeterminarsi, essere coscienti di sé, non serve a costruire muri, ma a buttarli giù. Se sai chi sei, sei pronto a un confronto alla pari. Se non lo sai, ti nascondi. Qualunque persona può averla vinta su di te. Quando ragioni su chi sei, sulla tua vita, sui tuoi errori, sulle tue debolezze… cresci. Ma ci vuole sacrificio. Ci vuole lo specchio. Queste canzoni cercano anche di essere questo: uno specchio. Non so se riesco a fare tutto quello che vorrei. Alla fine, scrivo canzoni perché… boh, sono un invasato. Scrivetelo pure: un invasato.

Da invasato: come si è evoluto in questi anni il tuo stile musicale e la tua ricerca?
Io parto tardi. Il mio primo disco l’ho fatto a quarantanove anni. Avevo già una voce, dopo anni di tentativi, fallimenti, morti e resurrezioni. Ho cantato in inglese, in elettrico, ho fatto di tutto. L’ultima pausa, prima del disco con Andrillo, è durata nove anni. Poi mi hanno chiesto di suonare in un nuraghe.
Gianni Maroccolo mi ha chiamato ad aprire due suoi concerti. Da lì è partita la follia. È uscito il mio primo disco con la Radici Records, etichetta toscana. Dopo l’uscita ho avuto un’embolia polmonare. Bel colpo di fortuna, eh? Ma sono guarito. E continuo. Come il calabrone: non sa che non dovrebbe volare, eppure vola. Io canto. E siamo contenti. Almeno io. Il mio è un cammino di crescita personale. Quando suono la chitarra e canto, in realtà canto anche la chitarra. Non sono un chitarrista. Ma se hai notato, io metto un dito, lo lascio suonare. Voglio che la chitarra suoni da sola. È una ricerca continua, in questa voce che mi è rimasta. E la uso. Non so se ho dato una risposta intelligente.

Quali sono le difficoltà che hai incontrato in questo percorso?
Che la musica è diventata un orpello, un rumore di sottofondo. Non è una cosa recente. L’altro giorno ero sulla navetta per l’aeroporto e c’era questa roba infernale… non si capiva nulla. Mortificavano la musica. Una canzone può anche non voler essere d’autore, ma ha comunque un senso. E lì viene annientato. Non si capiva niente. È diventata riempitiva. Abbiamo paura del silenzio. Abbiamo paura di guardarci allo specchio. Dobbiamo sempre dire qualcosa, anche se sono stupidaggini. Deve esserci sempre un po’ di musica, anche se non serve. Questa è una difficoltà. E poi gli spazi personali si sono ridotti, soprattutto dopo la pandemia. Ma sono fortunato: suono nelle case, nei giardini. Ogni tanto arrivo anche su palchi belli, come questo. Ma spesso mi trovi nei posti più improbabili. E questo mi aiuta a entrare in contatto con le persone. Sennò, alla mia età, starei a casa, mi sbracherei sul divano, mi sfonderei di birra guardando la TV. Invece no.

Parlavamo prima della connessione con la chitarra, ma l’ho vista anche con gli altri strumenti…
In elettrico lascio fare a Silvano Lobina, che è il deus ex machina degli arrangiamenti. Certo, dico la mia, ma Silvano rilancia sempre: “Andrea, ho pensato a una cosa cattiva.” E io: “Facciamola ancora più cattiva!” La connessione tra i musicisti è naturale. Sono musicisti clamorosi. Avete visto che batteria, che

chitarra, che basso? Io li lascio vibrare. Non li inibisco. Non li sovrasto. Ognuno fa il suo concerto. Quello che avete sentito è libertà. Non sono una star. Non vado lì a farmi bello. Vado a dare, non a prendere. Se ti tieni tutto per te, se brilli solo tu, gli altri diventano comparse. Ma nei miei concerti questo non esiste. Sono contento che abbiate percepito questa libertà. Quando Fabrizio, il chitarrista, mi ha scritto “Che bello suonare queste canzoni, quanto mi piacciono”… io, in lacrime. Come un cretino.
Molto bello anche il brano dei Marlene Kuntz…
La riscrittura del pezzo dei Marlene Kuntz è una cosa a due zampe: mia e di Silvano. Io ho fatto tutta la parte acustica, lui l’ha rallentata, l’ha rivestita come l’ha sentita. Sta in piedi anche da sola. L’abbiamo fatta sentire a Godano, che ci ha fatto i complimenti. Speravo non mi desse due schiaffi. È stato gentilissimo.

Non sei un cantautore “normale”. Ti avvicini al teatro-canzone, e lì ci sono i grandi maestri. Vedo che introduci le canzoni, citi i testi, traduci, crei connessioni letterarie e poetiche.
È fondamentale. Come dicevamo: non vai lì a prendere, ma a dare. Devi far sì che ti seguano. Non è che arrivi, suoni e tutti capiscono. Anche no. Devi dare appigli. Così, quando canti, il pubblico sa dove si trova. Pensare che tutti capiscano da soli sarebbe presuntuoso. I miei maestri sono Jacques Brel, Gaber, Guccini… hai visto come si comportava Guccini in concerto? Era un racconto. Io vengo anche da rock, punk, metal… ma questo tipo di approccio col pubblico è fondamentale. L’importante è che nessuno si perda. Né i musicisti, né il pubblico. Se vi siete trovati bene, allora vuol dire che non è successo.


Salvatore Esposito e Daniele Cestellini

Andrea Andrillo – Fortunate Possibilità (Edizioni Abbà, 2024)
Come si evince dall’intervista, Andrea Andrillo, oltre a essere un compositore sopraffino, è uno scompositore raffinato: di elementi musicali, letterari (letterali), culturali. Tutto ci affascina di questa sua azione di ricomposizione, tanto spontanea quanto efficace. Ci piace l’onda massiccia che la trasporta – massiccia di suoni e di contenuti – e che irradia vibrazioni infinite. Ci piace il disordine dei riferimenti (che sono tutti lì, in ogni verso e in ogni brano), che trasfigurano lo spazio del suo canto, del suo scrivere e del suo suonare. Ci piace l’insieme delle parole e delle azioni, cioè della sua scrittura e di come questa prende forma attraverso le canzoni e, in generale, le sue performance: in tutti i casi non si riconoscono né l’aderenza formale alle tradizioni (laddove tante tradizioni si riconoscono) né la voglia incontenibile di provare il nuovo, cioè di cimentarsi pericolante, fuori da quella spontaneità, nella sperimentazione. Ascoltando il disco – incorporato in un libro che ricomprende le poesie di Alessandra Fanti e genera una straordinaria “creatura ibrida come di rado se ne incontrano in ambito editoriale o discografico” – si comprende che le canzoni seguono immagini sovrapposte, e a queste si sovrappongono per stratificare linguaggi, sensazioni, direzioni, percezioni (come ci dice l’autore, queste canzoni rappresentano “la fine di un percorso iniziato cinque anni fa e quattro dischi fa, con un debutto che si apriva con un salto nel vuoto, poi proseguito per cerchi concentrici verso ciò che in questo momento mi sembra il compimento di un cammino andato ben oltre il traguardo di tre lavori che mi ero prefissato all’epoca”). Così come è evidente che la soluzione dello scomporre – che è indubbiamente il contrario di comporre, cioè di allineare gli elementi conosciuti, riconoscibili e, semplicemente, orientativi – racchiude una formula che non contempla il compiacimento ma, al contrario, il dubbio, la riflessione, il pensiero: il rischio. Non dobbiamo però, a questo punto e per gli stessi motivi che ci allontanano dall’ascolto comodo, intendere la parola di Andrillo come la parola nuova, irresistibilmente fascinosa e profetica. Perché qui non troviamo né parabole consolatorie né determinazioni inoppugnabili, anche quando ci ritroviamo tra i samurai, che viaggiano con la morte al loro fianco, o i tacchini, i cui canti striduli fanno il paio con i loro tentativi frustranti di volo. Troviamo (a proposito di nuovo) l’immanenza di una visione che percorre tenacemente i bordi significanti di tanti linguaggi, rigenerati in una forma cantata indissolubilmente stretta a una suonata (un fermento compositivo saldato, a parte qualche eccezione, alla forma del trio: Silvano Lobina al basso, chitarre elettriche ed elettronica, Nicola Vacca alla batteria e Andrillo alla chitarra acustica). Guardando più da vicino ci accorgiamo che “Fortunate possibilità” poggia semmai su una nuova superficie, di cui riusciamo a riconoscere qualche tratto generale che ne definisce i profili. Vi è innanzitutto – lo possiamo leggere nell’intervista – l’assetto del cantante che canta per formulare e riportare a grandezza d’uomo i temi grandi: la morte, l’insieme disgregato e contraddittorio che impasta la cultura, l’amore, l’orrore, la vita, la storia, la forza, la volontà. Vi è l’dea convinta che la forma non è la sostanza e che la storia può essere cantata anche in modo differente: “di sicuro c’è la nostra società che tende a nascondere la morte sotto cumoli di cianfrusaglie e fatica a considerare vincenti quelli che pur lottando strenuamente con coraggio ed enorme dignità arrivano malconci alla meta”. In questo senso il ragionamento sulla lingua sarda è straordinario, perché riconduce al concetto più esteso di determinazione (inutile andare avanti su questo). Ma soprattutto perché capovolge il paradigma del localismo, e con esso dell’isolamento a tutti i costi: Andrillo passa avanti, determinando sì la sua poetica attraverso un linguaggio “sicuro” e storico, comunicandone però il movimento verso (e attraverso) altre lingue. Questa formulazione ha un significato politico profondissimo, perché porta un canto e una visione nella nostra contemporaneità poliglotta, polimorfa e postlinguistica. 


Daniele Cestellini

Foto di Gianfilippo Masserano

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