Andrea Andrillo – Prolagus (Canzoni e parole per resistere, per non morire) (S’Ardmusic, 2021)

Leggendo le note introduttive di “Prolagus (Canzoni e parole per resistere, per non morire)”, terzo album in carriera di Andrea Andrillo si legge la storia del prolagu sardus, un animaletto in tutto e per tutto avvicinabile a lepri o conigli, animali “parenti” portati nell’isola dall’uomo che furono fra le cause della sua scomparsa. E’ da qui che prende vita il disco: dalla necessità di non estinguersi e, cosa ancora più importante, dalla volontà di resistere attraverso l’uso del sardo, la lingua madre percepita da alcuni come un fossile. A questa importante riflessione identitaria, si accompagnano i temi trattati nei vari brani come lo scorrere del tempo, le idiosincrasie del mondo moderno e le sue contraddizioni, perfettamente rappresentate, ancora una volta, dalla componente linguistica, che vede la lingua sarda perdere la sua natura nella fusione con italiano, inglese o spagnolo. Entriamo, dunque, nel cuore del disco con “S’ocit sa vida”, che, sorretta da una chitarra acustica arpeggiata, si snoda lungo un tappeto di elettronica ed archi, ad imprimere un’atmosfera dalle tinte fosche, quasi nebbiose. Molto bello il verso “Io non so raccontare la cenere/Anche se in faccia al mondo lo voglio cantare/Che è l’amore che provo ciò che mi potrà salvare”, che abbraccia il senso vero dello scrivere canzoni. Sempre una chitarra acustica, ma stavolta decisamente più tempestosa, sostiene “Su mundu Pau”, cadenzata da un pattern ritmico secco e nervoso e da lampi di elettronica che danno al brano un clima quasi marziale, in perfetto accordo col testo, una critica molto aspra, a tratti sacramente incazzata, nei confronti di chi svilisce il sardo e la Sardegna. A seguire troviamo “Disterrau” (“Ma per quanto sia grande/il mondo nel quale son stato/nessuno mi ha perdonato di essere povero/e di essere emigrato”), conferma di come a volte basti un arpeggio di chitarra acustica per essere più evocativi di interi ensemble orchestrali: qui il clima è dolente, c’è il dolore della partenza, quello della lontananza, c’è la solitudine di chi non è compreso o, peggio, si sente rifiutato dal mondo. “Cun su tempus”, poesia di Vincenzo Pisanu musicata per l’occasione, è, in qualche modo, il paradigma concettuale dell’intero lavoro: “Perché tutto sta passando in fretta/e nella corsa a perdifiato/non riesco nemmeno a vedere/il colore/ della vita”. Qui la chitarra acustica incontra una larga sezione archi, chiamata ad aprire la dinamica e a far decollare la canzone. Su “O Sardigna, custa est s’ora” è sempre la chitarra acustica a far la voce grossa, mentre, dietro di lei, un contrabbasso profondo si muove sinuoso, in quello che è un vero inno alla resistenza sarda, e che chiama in causa gli esempi cubani, vietnamiti, irlandesi e baschi. “A baddai” squarcia, quasi a metà, il disco, con le sue trame elettriche e sporche: un pezzo dal ritmo indiavolato, dalle atmosfere ruvide e muscolari, trainato da una vorticosa sezione ritmica e corroso da schitarrate elettriche al fulmicotone. Di tutt’altra pasta è “Y ser como el mar”, brano dai sapori agrodolci e mediterranei, trascinato da una chitarra classica e da una ondivaga linea di contrabbasso, che ben si sposano con un timbro interpretativo soffuso ed intimo. Un’ altra prova delle tante facce artistiche di Andrillo ci viene fornita con “Su chi est lèbiu, si bolat”, episodio dal carattere leggero (nonostante racconti di pene d’amore), reso molto bene da un brioso arpeggio di chitarra su cui si innesta, francamente inaspettato, un Hammond che spariglia le carte in tavola e si lascia andare ad un bellissimo solo. Su “Su patriotu” ritorna l’incastro fra chitarra, qui in uno strumming aperto e arioso, e contrabbasso, la cui linea a nuances cupe fa da perfetto contraltare alle atmosfere create dallo strumming. “Acante tua” è, riporto le note del disco, più valide di mille parole, “un canto d’addio che si sviluppa intorno all’assonanza fra “A Diosa” e “adiosus””, dove “a Diosa” è mutuata dalla canzone omonima, conosciuta anche come “No potho reposare”. È, questo, il passaggio del disco più denso di pathos teatrale, elemento che si rispecchia perfettamente anche nella scelta dell’arrangiamento, con un ombroso tappeto di archi a scortare un delicato, quasi zoppicante, arpeggio di chitarra. A chiudere l’album è “Las simples cosas”, capolavoro datato 1972, a firma Cesar Isella e Armando Tejada Gomez, di cui l’immensa Chavela Vargas incise una memorabile versione. Qui ci viene restituito solo chitarra e voce, con una interpretazione rarefatta, pervasa di tensione teatrale. Ad accompagnare il disco c’è anche un libro con i testi delle canzoni e gli interventi di Fiorenzo Caterini, Pier Franco Devias, Ivo Murgia e Francesco Casula ad esse collegati. In conclusione, ci troviamo di fronte ad un lavoro che è intanto un caleidoscopio di atmosfere e di paesaggi musicali, con delle interpretazioni sempre perfettamente centrate e calibrate. E poi è disco resistente di nome e di fatto: è politico, ma è anche poetico. Rincorre la pace, ma anche attraverso la ribellione. Fonde meravigliosamente la poesia alla musica. Per resistere, per non estinguersi. 


Giuseppe Provenzano

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