Cantautore e polistrumentista, Piers Faccini ha sempre attraversato i confini della musica con curiosità e rispetto, intrecciando folk britannico, blues americano e sonorità mediterranee e africane. Nel nuovo album “Our Calling”, realizzato insieme al maestro della kora Ballaké Sissoko, la sua scrittura si fa ponte tra culture, tempi e geografie diverse, in un dialogo profondo e senza artifici che Arte ha documentato dal vivo al festival Jazz à Porquerolles, Hyères. In questa intervista, Faccini racconta l’evoluzione del suo songwriting, le collaborazioni che lo hanno segnato e il percorso che lo ha portato a creare un disco sospeso tra la tradizione maliana e la canzone d’autore.
Come si è evoluto negli ultimi anni il tuo songwriting?
Direi che cerco di conservare sempre una parte centrale del mio songwriting, legata alla mia sensibilità e alle mie prime canzoni. C’è sempre quel tocco di folk britannico, con l’influenza del blues del Mississippi e del folk americano. Quello che è cambiato negli ultimi dieci e più anni è che ho iniziato a creare una sorta di conversazione nella mia scrittura con musiche al di fuori di questo registro: la musica del Mediterraneo, quella popolare italiana, ma anche suoni della Turchia e del Maghreb. L’influenza del Maliè sempre stata presente. Quello che mi interessa è creare dialoghi nuovi e formule inedite per la scrittura e la composizione.
Nel corso della tua carriera hai spesso collaborato con artisti diversi, tra cui Mauro Durante del Canzoniere Grecanico Salentino. Quanto ti hanno arricchito questi incontri?
Ho conosciuto Mauro Durante perché ero già affascinato dalla pizzica e dalla musica del Salento. Avevo scoperto la voce di Uccio Aloisi circa vent’anni fa e poi, un paio d’anni dopo, mi sono trovato a fare un concerto in Salento. Non era per la Notte della Taranta, ma per un evento legato a quella realtà. Pensai che sarebbe stato bello avere con me un percussionista capace di suonare il tamburello nello stile salentino, ma con cui poter anche improvvisare. Il mio agente in Italia, Ponderosa, mi presentò allora questo giovanissimo musicista: Mauro Durante. Ci siamo subito trovati bene, siamo diventati amici e abbiamo collaborato in vari album del Canzoniere Grecanico Salentino. L’ho anche invitato in Francia per alcuni progetti. Ogni collaborazione, come dicevo nella prima risposta, è un’occasione per essere sorpresi e trovare dettagli che aprono porte verso dialoghi interessanti nella scrittura.
Ci puoi raccontare com’è nata la collaborazione con Ballaké Sissoko?
Ho incontrato Ballaké Sissoko circa vent’anni fa: eravamo entrambi nella stessa etichetta, la Label Bleu, ad Amiens, in Francia. Stavamo preparando i nostri lavori e io stavo registrando il mio secondo album solista, “Tearing Sky”. Lo invitai a partecipare e venne persino con me in America. Registrò meno di quanto avrei voluto, perché il produttore del disco, J.P. Preunier, aveva un’idea un po’ diversa su come inserirlo. In fondo, “Our Calling” è il disco che avrei voluto fare con lui allora, ma per cui non ero ancora pronto. Credo che le cose belle abbiano bisogno di tempo.
Nel suo suono si percepisce qualcosa di molto antico, legato a un’altra epoca. Oggi abbiamo YouTube, Spotify, tutorial... ma nessuno impara la musica come una volta. Nel suo modo di suonare si sente la tradizione di una linea musicale secolare, quasi sette secoli di storia mandinga e di suonatori di kora. È un po’ la stessa sensazione che avevo ascoltando Uccio Aloisi: un’energia e un’autenticità che oggi sono rare. Ballaké Sissoko, pur essendo aperto alle collaborazioni e alle novità, ha un suono radicato in un tempo in cui la musica era forse più pura e distinta. La globalizzazione ha cambiato tutto, e bisogna accettarlo.
Com’è nato il disco “Our Calling”?
È nato da un’amicizia che negli anni si è arricchita e approfondita. Volevo studiare, a modo mio, la musica come lingua: per parlarla serve tempo. Comprendere la complessità della musica maliana per chi proviene da un’educazione occidentale è un viaggio profondo e difficile. Dopo vent’anni di conoscenza, amicizia e collaborazioni anche con altri musicisti come Vincent Segal, è arrivato il momento giusto. Il disco è nato in modo naturale. Ballaké Sissoko dice spesso che lo colpisce come io riesca a suonare la chitarra e creare canzoni in inglese restando però fedele alla costruzione modale e mandinga.
Il disco è dedicato alle migrazioni in tutte le loro forme. Come avete deciso di lavorare su questo tema?
Quando preparo un nuovo album penso molto anche al concetto che lo sostiene. Trovo importante avere qualcosa di originale e chiaro da dire. La migrazione mi sembrava un tema ampio, poetico e anche politico: quella degli uccelli, degli esseri umani, ma anche la migrazione come motore di ogni momento culturale importante. Le cose belle succedono quando incontri qualcuno che ti mostra qualcosa che non conosci ancora. Nella musica è lo stesso.
Quali difficoltà hai incontrato nel coniugare il tuo songwriting con la tradizione maliana?
Molte. La prima è cantare una melodia rispettando la base ritmica e modale mandinga, che è molto diversa. È come imparare una lingua. Vent’anni fa provavo con risultati alterni, ma con il tempo, lavorando e suonando spesso con Ballaké, ho trovato un mio modo di parlare quella lingua, sia a livello ritmico che nell’approccio all’improvvisazione melodica.
Come avete lavorato agli arrangiamenti?
Gli arrangiamenti sono pochi: il disco è soprattutto il dialogo tra chitarra e kora, registrato nella stessa stanza, in presa diretta, senza click o editing. Ogni tanto ho aggiunto cori, e Vincent Segal ha suonato il violoncello, mentre Malik Ziad ha portato la linea di basso col guembri. È un disco spontaneo, come un live in studio.
Quanto è stato importante il contributo di Vincent Segal, Badjé Tounkara e Malik Ziad?
Nei tre-quattro brani in cui si sentono guembri, ngoni e violoncello c’è un colore diverso che dà respiro all’album. Con Badjé Tounkara ho suonato tanto in passato, anche se un progetto comune non è mai stato registrato. Vincent Segal è un amico di lunga data, sia mio che di Ballaké. Malik Ziad lo conosco da oltre dieci anni e ha partecipato anche ai miei ultimi album. Invitarli è stato naturale.
C’è un brano a cui sei particolarmente legato?
“Borne on the Wind”, una delle prime canzoni che ho proposto a Ballaké Sissoko. È stata una sorta di chiave per capire come dialogare e scrivere insieme. Parla della migrazione di un uccello che trascorre metà dell’anno in Africa occidentale e metà in Europa, un’immagine poetica e simbolica del tema del disco.
Com’è nata l’idea di inserire “Ninna nanna”?
La melodia della “Ninna nanna” salentina utilizza un modo che si ritrova anche nella musica mandinga, con gli stessi intervalli, seppur in contesti diversi. Riarrangiandola, abbiamo creato un ponte tra Europa e Africa: la melodia è rimasta intatta, ma l’accompagnamento ha assunto un colore maliano.
“Go Where Your Eyes” ha un fascino particolare. Com’è nata?
È nata da un riff classico del Mali, trasformato in qualcosa di nuovo e adatto all’inglese. Su quel riff ho introdotto una progressione di accordi, uno dei pochi momenti armonici del disco. La struttura è più lunga ed epica, e il testo è ispirato alla poesia sufi, in particolare a Rumi. Nella registrazione c’è stata molta improvvisazione, un momento di magia in cui abbiamo trovato la forma giusta. Il ritornello, pur cantato in inglese, ha un’energia quasi flamenca e mediterranea.
Come saranno i concerti di “Our Calling”?
Il concerto è proprio come il disco: siamo, come in studio, nella stessa stanza, facendo tutto insieme, senza overdub. A parte qualche voce su due o tre canzoni, eseguiamo tutto in diretta, con tanta improvvisazione su una forma fissa, che è quella della scrittura della canzone, e poi una chitarra, una kora, la mia voce… molto semplice. È bello poter fare i concerti e il disco nello stesso modo. Chi ascolta l’album e poi ci vede dal vivo ritrova la stessa esperienza. Anzi, forse oggi lo posso dire ancora meglio, perché abbiamo già fatto tanti concerti e ne faremo ancora per un anno: ogni volta cresce l’amicizia e l’ascolto reciproco.
E i tuoi prossimi progetti?
Per quanto riguarda i prossimi progetti, sicuramente ci sarà un disco a mio nome, un album solista che sto finendo di scrivere e che, se tutto va bene, registrerò all’inizio del prossimo anno. Continuerò a suonare con Ballaké Sissoko almeno fino all’estate 2026, e poi il mio nuovo disco dovrebbe uscire a inizio 2027: questa è l’idea.
Salvatore Esposito
Piers Faccini | Ballake Sissoko – Our Calling (NØ FØRMAT!, 2025)
Scrive Jorge Luis Borges (in “Altre inquisizioni”): “L'usignolo, in tutte le lingue del mondo, gode di nomi melodiosi (nightingale, nachtigall, ruiseñor), come se gli uomini istintivamente avessero voluto che questi non demeritassero del canto che li meravigliò”. Lo scrittore argentino pensava in primo luogo ai poeti inglesi e, in particolare, a John Keats quando coglie la dimensione ancestrale nella melodia cantata da questo uccello che, dove si parla bambara, viene chiamato sorofé kono: fra tutti, forse, l’appellativo più melodioso. Si dice anche, dove si parla bambara, che il caso non esiste; era quindi destino che il sorofé kono si librasse in volo a metà dell’album a suggellare la ventennale collaborazione fra Piers Faccini e Ballake Sissoko, a disegnare le rotte migratorie da sempre solcate dagli andirivieni fra Africa e Europa: ad aspettare chi sa farsi trasportare dal vento. Già al primo ascolto, “Borne on the Wind” suona come un “classico”, dipinto con semplicità e maestria dalla voce e da due strumenti a corde, così come si può fare dopo un pasto condiviso, ma anche dopo molti anni di frequentazione reciproca. Questa “semplicità” è efficace al punto da lasciare al solo dialogo fra voce, kora e chitarra cinque dei dieci brani di “Our Calling”. E a permettere una sessione di registrazioni relativamente agile: cinque giorni con Frédéric Soulard, suonando dal vivo in studio, a Parigi. Il brano di apertura, “One Half of a Dream” ha la forma di una ballata inglese e l’andamento solenne e dinamico di una narrazione mandinga, qui puntualmente sostenuta non solo dalla kora, ma anche dal ngoniba di Badjé Tounkara, con un testo che infonde speranza e linfa vitale a chi sceglie la via dell’esilio. Ancor più vicine all’estetica mandinga sono le due strofe e i cori che danno corpo a “I Wanted to Belong” e ai versi in cui troviamo il senso della “chiamata” cui si riferisce il titolo dell’album, la forza vitale di un destino, nel caso di Faccini, rivolto a sud, segnato da tracce e venti che spingono all’erranza. Completa il trittico iniziale “If Nothing Is Real”, brano sulla separazione che evoca l’irresistibile incedere agrodolce di Nick Drake. A febbraio, ne hanno proposto anche una versione breve dal vivo. Non poteva mancare il violoncello di Vincent Segal, protagonista con Faccini dell’album “Songs Of Time Lost” (2014) e di “Chamber Music” (2009) e “Musique de nuit” (2015) con Sissoko. Insieme a Malik Ziad al guembri è protagonista di “Mournful Moon”, virata blues dedicata al movimento e all’impermanenza. Con poche, essenziali note e un bordone Segal sa poi tessere il ponte fra la parte lenta e quella ballabile della “Ninna Nanna” in lingua salentina che precede “Borne on the Wind”. Nei sei minuti di “Go Where Your Eyes” è il turno di Badjé Tounkara, questa volta al djeli ngoni, di marcare i cambi di passo lungo le lente e dense strofe che raccontano come la febbre possa prosciugare la notte e si riesca a vedere più chiaramente una volta che il fuoco si spegne. Il trittico finale riparte dalla dimensione della ballata e dalla kora: sua è la toccante introduzione all’acustica “Shadows Are” prima di lasciare spazio al blues elettrico di “North and South”, scandito anche dal guembri di Malik Ziad. La chiusura è affidata alla meditativa “By Your Hand”, col canto e la narrazione della kora in felice equilibrio. Un album che riesce distillare l’essenza dell’ecologia sonora “NØ FØRMAT!”.
Alessio Surian
Foto di Sandra Mehl