Certe volte i dischi nascono da un progetto preciso, altri da un’idea folgorante e magari anche da una risata. “Tomato Peloso” appartiene alla seconda categoria: un titolo tanto assurdo, quanto irresistibile, buttato lì durante un viaggio di ritorno da un concerto, capace di mettere d’accordo tutta la band sulla natura stessa di quell’incontro in musica, divertente e imprevedibile. Da lì, il resto è venuto da sé: una copertina disegnata quasi per gioco, un pomodoro con ciuffo e pelliccia, e un progetto musicale che affonda le radici in oltre vent’anni di amicizie, incroci sonori e passioni che vanno dal jazz più, al rock’n’roll più ruvido, con l’aggiunta di una buona dose di improvvisazione libera e qualche tocco elettronico e ambient. Con i Jazzabilly Lovers – un manipolo di musicisti dalla mente aperta e dalle mani velocissime – John De Leo si muove in una terra di nessuno tra standard jazz, classici di Elvis Presley e improvvisazioni psichedelico-ambient, dove nulla è mai identico a sé stesso e l’errore diventa spesso la scintilla per nuove traiettorie. In questa intervista, John De Leo ci ha raccontato come ha preso forma il progetto tra aneddoti, incontri fortunati (compreso quello con Paolo Fresu e la sua Tǔk) e una dichiarata fedeltà all’azzardo. Perché, come dimostrano questi brani, certe storie musicali sono più vive quando rifiutano di stare ferme.
Com'è nato il progetto "Tomato Peloso"?
Tomato Peloso è uno dei tanti titoli che ho sparato durante un viaggio di ritorno da un concerto ed è stato quello che ha fatto più ridere la band. Definito il titolo dell’album, qualcuno dell’entourage mi costretto sotto tortura a disegnare la copertina (non è vero: qualcuno ha semplicemente buttato lì l’idea) e così ho provato a dare forma, ciuffo e pelliccia al pomodoro. I propositi del progetto musicale risalgono a circa venti anni fa; inizialmente ne parlai a Stefano Senni, contrabbassista mio conterraneo di Lugo di Romagna (Ra) con cui condivido gli amori antipodici del Jazz e del Rock and Roll anni Cinquanta. Non a caso l’idea iniziale era quella di trattare in chiave improvvisativa le canzoni del rock and roll e viceversa di implicare suoni e stilemi del Rock and Roll negli standard.
Al tuo fianco ci sono i Jazzabilly Lovers, un gruppo di eccellenti strumentisti. Ce li puoi presentare?
Innanzitutto, sono musicisti creativi e di larghe vedute, ovvero quei fattori che determinano un denominare comune del gruppo. Sono tutti molto preparati e vaccinati, ognuno con un proprio carattere e peculiarità. Stefano Senni è un contrabbassista navigato e monolitico sul quale ogni musicista da ogni latitudine può fare affidamento, soprattutto se si viene risucchiati nei buchi neri del Free e si deve “tornare a casa”, per così dire. Fabio Nobile suona la batteria ma in realtà è un polistrumentista, dunque con una cognizione musicale non solo ritmica ma anche armonica e con una vocazione lirico-melodica straordinaria. Enrico Terragnoli è un chitarrista che tende a suonare l’essenziale trovando l’uovo di Colombo con infinta originalità. Improvvisatore superlativo, insieme a Succi, Petrella e Fabrizio Puglisi è tra i grandi musicisti italiani con cui abbia avuto a che fare. Franco Naddei, in arte Francobeat è uno dei miei più longevi collaboratori e con il quale si è affinata nel tempo una sintonia scaturita dalla necessità di “moltiplicare” le possibilità del suono. Con l’ausilio di marchingegni analogici, in tempo reale campiona, “streccia”, dilata, sintetizza e “aumenta” le capacità delle nostre sorgenti conferendo al suono complessivo della band anche una impronta elettronica, che in realtà ne è un’emulazione.
Qual è stato il criterio con cui avete scelto i brani da rileggere?
Ogni rilettura ha diverse motivazioni ma per lo più i brani sono stati scelti semplicemente perché ci piacciono, senza troppe elucubrazioni. Fondamentalmente si tratta di canzoni famose ora appartenenti alla tradizione jazzistica vedi “Stormy Weather” ora al Rock and Roll come “Blue Suede Shoes” e in linea di massima il criterio è quello di pensarli come standard sui quali improvvisare. Nella maggior parte dei brani si aprono parentesi improvvisative ora scaturite dall’ispirazione del momento, ora decise a tavolino. A questo proposito va detto che non ricordo un solo concerto in cui detti “appuntamenti” siano stati eseguiti esattamente come decisi. Confesso di aver impiegato un po’ di tempo per digerire quest’ultimo aspetto; oggi sono sinceramente convinto sia la miglior strada percorribile per la musica che produciamo insieme.
Come si sono evoluti i brani del repertorio di Elvis Presley in questa inedita chiave jazz rock?
Come dicevo, trattando i brani come standard - e data l’impossibilità a ripetersi - potrei azzardare siano ancora in evoluzione. Di per certo, oltre alle influenze Jazz e Rock, al suono complessivo si sono aggiunte nel tempo componenti quasi Ambient e indubbiamente psichedeliche. Così rivisitati, musica e testo acquisiscono forse accezioni altre, chissà se plausibili. In ogni caso, nel bene e nel male, Presley resta uno dei nostri spiriti (o demoni) guida e forse l’inedito Elvis Daimon spiega meglio ogni deferenza e ogni sincretismo.
Come si è indirizzato il lavoro di arrangiamento dei brani?
Quasi sempre per contrapposizioni opponendo momenti Rock ad altri più jazzistici; in proposito potrebbe essere esemplificativo il medley “Hard Bop a Lula/Resolution”. Quanto a Love me tender, dilatato e rallentato alla maniera di un mantra ha trovato posto, più o meno in maniera definitiva, anche un accenno a “Lonely Woman” di Ornette Coleman, altro musicista storico cui siamo tutti devoti. In “Stormy Weather” abbiamo cercato di rappresentare musicalmente la tempesta sia nel senso meteorologico sia introspettivo-psicologico. “Lonely Summer Nights” degli Stray Cats - un terzinato classico anni Cinquanta - ci ha invece suggerito l’idea di giocare su quel 3/4 in modo poliritmico; quindi, rispettandone la struttura ma cambiandogli di vestito, diciamo così. I brani più strutturati sono gli inediti trattati (quasi) come canzoni; nonostante le parole del testo alludano a un’intrinseca impossibilità a un qualche inquadramento, in “Wrong Song Magic” abbiamo innestato un ostinato quasi ballabile ispirato dal film cult “Frankestein Junior” e in “Elvis Daimon”, dopo la sfuriata in stile Clash e/o Cramps, la citazione finale di “Can’t Help falling in love” è rielaborata un po’ alla maniera dei Platters.
In che modo hai lavorato sulla voce a livello interpretativo?
Questo progetto offre l'opportunità di imitare ed esasperare suoni e cadenze tipici del crooner, senza aver definito in anticipo un metodo specifico. Diciamo che l’obiettivo è quello di riuscire al meglio nel dialogo con i musicisti e -come Terragnoli insegna- tentare di identificare al volo il suono giusto per la narrazione estemporanea complessiva. Quando invece tocca a me condurre il gioco spero sempre di riuscire a tener fede alla prima responsabilità del solista, ovvero quella di essere chiaro nelle intenzioni. Per fortuna, l’approccio condiviso con i musicisti di Jazzabilly Lovers resta anche quello di azzardare virate astruse e cercare di cavalcare in maniera feconda l’imprevisto.
"Tomato Peloso" segna l'inizio della collaborazione con la Tǔk di Paolo Fresu. Ci puoi raccontare l'incontro con il trombettista sardo?
Negli anni ho avuto modo di suonare con Paolo in diverse occasioni, occasioni che ho affrontato con particolare attenzione e disponibilità; mi pongo sempre con rispetto con quei musicisti che hanno alle spalle una carriera importante e al di là dell’ambito in cui lavorano. Perché c’è sempre da imparare. A ogni modo qualche anno fa mi invitò poi a Berchidda per partecipare al festival Time in jazz; in quell’occasione chiesi semplicemente se poteva interessargli l’idea di produrre un progetto come Jazzabilly Lovers e si dimostrò entusiasta. Quindi rincarai la dose proponendogli anche di partecipare attivamente come musicista. Guarda caso, non solo si è immediatamente integrato al nostro suono ma è riuscito persino a enfatizzare le nostre intenzioni. In Love me tender (di cui esiste anche il relativo videoclip) passa con estrema puntualità e disinvoltura da un pedale stile ECM al Punk più volgare e volutamente ottuso del finale. Dopo le registrazioni ci anche ringraziati per avergli dato la possibilità di unirsi a quella nostra vena ironica. Colgo l’occasione per ricordare che il 5 settembre prossimo tornerò a Time in Jazz insieme a Jazzabilly Lovers. Siamo infinitamente grati a Paolo dell’invito ma questa volta gli toccherà anche salire sul palco con noi.
Quanto spazio è riservato all'improvvisazione in questo disco?
Più di quanto possa sembrare. Infatti, l’unico vero e proprio lavoro di post-produzione è stato quello di accorciare i brani poiché ogni sessione registrata dall’ottimo Stefano Amerio durava mediamente dodici minuti. Il materiale è passato poi all’Ondeleone Studio e insieme al fido Francobeat abbiamo dato una sforbiciata. Tranne qualche coro aggiunto, come sempre ogni cambio timbrico o campionamento è suonato dal vivo o con l’ausilio di microfoni diversi come in concerto.
Liberi dalle tempistiche di quella soglia di attenzione che si suppone al mero ascolto di un album, in concerto i brani sono mediamente più lunghi ed eseguiti senza l’ansia da clessidra. Al di là di ciò ci sono poi infiniti fattori che incidono sull’ispirazione e che difficilmente si possono riassumere o codificare razionalmente. Solitamente un’area concerto accogliente, una buona fonica o il plauso del pubblico possono influire positivamente sull’esibizione del performer. Ci sono però tante altre variabili a volte ineffabili. È successo di aver suonato al nostro meglio al festival di Cicciabuffa e con un impianto mediocre, oppure di essere stati costretti al secondo bis nonostante avessimo già suonato oltre due ore. Ricordo il concerto al JazzMi come uno dei nostri più creativi nonostante mancasse un componente del gruppo. E non sto asserendo che quel componente sia inutile o che ripetendo l’operazione si ottenga lo stesso risultato, sia chiaro.
Recentemente hai ritrovato i Quintorigo per un tour che celebrava i venticinque anni dalla pubblicazione di "Rospo". Ci puoi raccontare questa esperienza? Ci sarà un seguito?
Avevo in mente di contattare i restanti Quintorigo ancor prima che Universal avanzasse la proposta della ristampa celebrativa. Da qualche tempo sto lavorando a un nuovo album e tra i brani in cantiere ne ho immaginati un paio da arrangiare insieme al mio vecchio ensemble. Nonostante sia passato tanto tempo, il progetto originario Quintorigo mi pare conservi ancora una vena di originalità e forse anche un potenziale artistico. Fatto salva quell’esperienza affinata insieme negli anni e indubbiamente preziosa, vorrei stimolare i miei soci a non ripeterci, a sondare ancora ambiti sonori lontani da ciò che ci riesce più facilmente. In questo periodo siamo in tour ma appena possibile ci metteremo a sedere per discutere l’eventuale fattibilità e le modalità della mia idea. Vedremo. Al momento ho fatto pace con il fattore “revival” relativo a questa operazione commemorativa e mi sto divertendo molto. Premesso che non potrei fare a meno di continuare a cimentarmi nella musica improvvisata anche radicale, attualmente sono molto contento di essere tornato alla musica scritta, agli arrangiamenti curati meticolosamente in ogni dettaglio.
John De Leo Jazzabilly Lovers – Tomato Peloso (Tǔk Music, 2024)
È un viaggio sonoro distopico che si muove in modo imprevedibile tra presente, passato e futuro, quello compiuto in “Tomato Peloso” da John De Leo con i Jazzabilly Lovers. Difficile definirlo un semplice disco, ma piuttosto siamo di fronte ad un laboratorio musicale a cielo aperto nel quale rock’n’roll, jazz, swing, elettronica e improvvisazione si incontrano e si intersecano in modo sorprendente, cristallizzando una cifra stilistica unica. John De Leo, utilizzando diversi microfoni e sampler, spinge la sua voce oltre il ruolo di semplice veicolo melodico per trasformarla in un vero e proprio strumento, gioca con timbri, estensioni e registri, passando da sussurri graffiati a esplosioni improvvise, da modulazioni elastiche a frammenti percussivi. La parola si piega, si deforma, si spezza per diventare ritmo, colore, rumore, materia viva. È una ricerca instancabile di nuove possibilità espressive, dove il canto tradizionale convive con sperimentazioni vocali che aprono spazi inaspettati, capaci di dialogare con ogni altro suono della band e di ridisegnare il significato stesso di interpretazione. A dargli corpo e complicità sono i Jazzabilly Lovers, quintetto nato nel 2019 da un’idea a lungo coltivata da John De Leo e Stefano Senni (contrabbasso) e completato da Enrico Terragnoli (chitarra elettrica, live looping, effetti, tastiere), Fabio Nobile (batteria e percussioni) e Franco Naddei (sound design, sampler, live electronics). Insieme, hanno impiegato anni a cucire un repertorio che attraversa rock e jazz, rielaborando standard e componendo brani originali, fino a cristallizzare un suono capace di fondere rispetto e irriverenza in egual misura tra riferimenti ad Elvis Presley, John Coltrane e Stray Cats. Prodotto da Paolo Fresu e pubblicato dalla Tǔk Music, il disco è tutto giocato sul mutevole rincorrersi tra voci e strumenti, tra improvvisi cambi di ritmo e direzione, inattese incursioni in territori sonori differenti e spaccati di irresistibile divertimento. Si parte dagli anni Cinquanta con una superba rilettura di “Blue Suede Shoes” dal songbook di Elvis Presley con la voce filtrata di John De Leo che si staglia tra chitarra e batteria a guidare il climax fino all’ingresso, a metà brano dell’elettronica che fa esplodere il brano per poi tornare alle atmosfere rock’n’roll. Il primo inedito del disco arriva con la sinuosa “Wrong Song Magic”, con la citazione dal film cult “Frankestein Junior”, è una piccola enciclopedia del rock’n’roll degli anni Cinquanta declinata al futuro con le acrobazie vocali di De Leo, perfettamente incorniciate dal dialogo tra chitarra ed elettronica, sostenuto dalla potente sezione ritmica. “Love me tender”, ancora dal repertorio di Elvis Presley è certamente uno dei vertici del disco. L’atmosfera è sospesa con synth e chitarra elettrica che evocano atmosfere oniriche dal tratto ambient, finché non entra in scena la tromba di Fresu che, citando Ornette Coleman, fa da preludio al deflagrante ingresso della voce di John De Leo che si staglia tra i riff quasi grunge della chitarra e l’elettronica. Si prosegue con l’inedito “Jazzability”, a metà strada tra ballad e ninna nanna nella quale John De Leo si produce in un irresistibile scat mentre la chitarra traccia la linea melodica sostenuta dalla brillante tessitura ritmica di contrabbasso e batteria. Dal repertorio degli Straycats arriva la gustosa “Lonely Summer Nights” nella quale spicca il registro vocale basso ed intenso di De Leo e il magistrale assolo di chitarra di Terragnoli, ad evocare una notte d’estate vissuta tra passione e tormenti. Altro vertice del disco arriva con il medley tra “Be bop a lula” di Gene Vincent e “Resolution” di John Coltrane, un cortocircuito tanto imprevisto quando affascinante nel quale giganteggia John De Leo alla voce, con il contrabbasso di Senni che costruisce una originale architettura ritmica in cui si muovono la chitarra, l’elettronica e la batteria. De Leo e i Jazzabilly Lovers sperimentano vortici sonori sempre più travolgenti con il tasso di elettricità che aumenta fino a culminare in una scorribanda tra chitarra distorta ed evoluzioni vocali. Se “Baby Let’s play” è sospesa tra aperture elettriche e spaccati languidi in cui il cantato di John De Leo si fa più intenso ed evocativo, la successiva “Elvis daimon” è un'altra rovente fuga jazz-rock a cui segue una parentesi di quiete a cui è affidata la citazione di “I can’t help falling in love with you” ancora dal songbook di Elvis. Chiude il disco una vibrante “Stormy Weather” che si dipana tra le atmosfere ambient della prima parte e la seconda in cui il brano vira prepotentemente verso il rock con il pianoforte di Rita Marcotulli ad arricchire il tutto, mentre la voce di De Leo si produce in una performance travolgente, prima che lo scenario cambi verso un finale in dissolvenza, denso di nostalgia. “Tomato Peloso” è un album che coniuga elementi di rock’n’roll e jazz, integrando l’improvvisazione per ridefinire la tradizionale struttura della canzone. La sperimentazione svolge un ruolo fondamentale, rappresentando una cifra stilistica unica orientata sia alla reinterpretazione del passato sia all'innovazione futura, in un processo coerente e attento agli aspetti ironici ed emotivi.
Salvatore Esposito