Rudolstadt Festival, Rudolstadt, Germania, 3 - 6 luglio 2025

Numerosi i chioschi di cibi locali e internazionali, bevande per tutti i gusti, stand di abbigliamento, accessori, libri, dischi (la postazione della CPL-Music vendeva cd a profusione, scardinando l’idea che l’era del supporto fisico sia conclusa), riviste musicali (la storica testata tedesca “Folker”). Tantissime nel parco le attrazioni per le famiglie, in un’atmosfera rilassata e pacifica, vissuta anche nei concerti più affollati. Rudolstadt è una manifestazione popolare che si offre a un pubblico eterogeneo, composto non solo di super appassionati e cultori delle musiche folk & roots. Un flusso continuo ma ordinato, in movimento da un set all’altro o in attesa, rigorosamente in fila, di entrare nelle location più piccole. Buskers per le strade suonano e fanno ballare fino a notte inoltrata, complice un clima ideale: soleggiato ma non eccessivamente caldo. Fortunatamente, l’incendio boschivo scoppiato a una trentina di chilometri non ha avuto conseguenze sulla manifestazione. Ogni anno, il festival offre un focus tematico su un Paese. Protagonista di questa edizione è stato il Mali, celebrato nelle sue tante anime sonore, anche con due affollatissime conferenze. “Senza musica, il Mali non esisterebbe”, ha dichiarato Vieux Farka Touré, chitarrista e cantante, figlio del leggendario Ali Farka Touré. È stato uno dei protagonisti con sonorità rock di impronta hendrixiana, mentre Sadio Sidibe, cantante e danzatrice del Wassoulou, ha inaugurato la manifestazione con il suo live davvero godibile. Se Ami Yerewolo permea il suo rap di elementi bambara, il progetto berlinese Le Mali 70 rievoca la grande tradizione delle big band maliane degli anni ’70.
Le sfumature blues&rock di Petit Goro danno consistenza all’universo culturale Dogon, mentre il gruppo familiare tuareg Al Bilali Soudan abbraccia il pubblico con l’ipnotico incedere della tradizione takamba, suonata con il liuto a tre corde tehardent, la percussione calabash e il canto call&response. Una tradizione che il cantante e chitarrista Kader Tarhanime esprime in una forma più morbida. Invece Nfaly Diakité, kônô (portatore di memoria), cantante e suonatore di donso n’goni, con il progetto Hunter Folk porta nella contemporaneità la tradizione della confraternita dei cacciatori Donso. A completare le proposte folk acustiche presentate dall’attivissimo centro d’arte Mieruba di Ségou, sono stati i duo Malian Roots (Kankou Kouyaté & Barou Kouyaté) e Sahel Roots (Alassane Samake e Adama Sidibe). Diversamente, con Baba Sissoko & Mediterranean Blues, la musicalità subsahariana si fonde e si trasforma, superando i confini geografici e stilistici. Il progetto del calabro-maliano travolge il pubblico con l’energia trascinante di una band molto affiatata, dove brilla l’armonica di Domenico Canale. Tra richiami rock & blues, inflessioni jazz e il timbro inconfondibile del suo ngoni, il suono si fa incontro di mondi e linguaggi. Come già accennato, il cast del festival turingio è imponente: la maggior parte degli artisti si esibisce in più venue nell’arco di tre giorni. Il vostro cronista ha dovuto operare delle scelte all’interno del fitto palinsesto, muovendosi da un concerto all’altro. Sul palco dell’affollata cornice della Piazza del Mercato si è distinta
la contrabbassista colombiano-francese Ëda Diaz, la cui musica fonde con naturalezza strutture poetiche latinoamericane, elettronica e un elegante tocco da chanson. Dalla Colombia del Pacifico è arrivato il gruppo Choiba Chirimía, che ha imposto la matrice ritmica afro-colombiana dalla marcata inflessione danzante. Un party “mestizo” lo hanno officiato i colombiani-argentini Che Sudaka, mentre il burkinabé d’adozione tedesca Ezé, artista poliedrico, attivista e promotore di progetti educativi e culturali, ha conquistato la scena, forte del recente Premio Tedesco per la Musica del Mondo RUTH. Sul Main Stage del Palazzo di Heidecksburg, la benemerita coppia formata da Mauro Durante e Justin Adams stregato con il “dolce rilascio” di architetture sonore che uniscono pizzica, blues, punk e suggestioni desert blues. Nel vicino Terrace Stage, il quartetto polifonico di Riga Saucējas celebra il canto a più voci dagli intervalli intricati e dissonanti, frutto della ricerca negli archivi etnografici lettoni. Allo stand dei dischi, i CD della cantante e compositrice ucraina Ganna Gryniva, residente a Berlino, sono andati letteralmente a ruba. La sua musica rielabora il folklore tradizionale attraverso stilemi jazz e innesti di loop elettronici, creando un sound moderno e coinvolgente. Dalla martoriata Ucraina arriva anche Taras Dototski, solista di bandura, kobzar e ghironda, che offre un’intima immersione nella tradizione dei kobzar, i menestrelli itineranti. Dalla Scandinavia giungono raffinatezze timbriche con i giovani musicisti
norvegesi-svedesi Kalejdoskop Trio — hardingfele, shruti box, voce e clarinetto — e Mojna, in organico di hardingfele, clarinetti e chitarra. Entrambi rappresentano la nuova frontiera del folk nordico, proponendo musica strumentale ricca di tessiture interconnesse, improvvisazione e sofisticate tecniche di contrappunto. Invece, il trio danese Tumult si identifica un po’ con la vecchia guardia folk a tinte rock, che non delude le attese. Sono stati protagonisti anche di un talk aperto al pubblico che ha ripercorso la loro storia musicale, come è stato anche per il quartetto gallese Pedair, che comprende quattro delle voci più affermate della scena tradizionale cimrica: Siân James, Gwenan Gibbard, Gwyneth Glyn e Meinir Gwilym. Le quattro vocaliste e strumentiste reinterpretano il folk gallese da una prospettiva femminile, proponendo armonie raffinate e arrangiamenti moderni. Articolati ricami polivocali arrivano dal coro georgiano Shemodzakhili, che, sceso dal palco a tarda sera, abbiamo ascoltato mentre intonava canti da tavola durante una conviviale cena presso un chiosco di prelibatezze caucasiche. Ancora maestrie vocali caratterizzano il repertorio dell’Idrîsî Ensemble, impegnato nell’interpretazione di repertori medievali tratti da manoscritti d’epoca, affiancati a tradizioni canore riconosciute dall’UNESCO. Il loro canto racconta il Mediterraneo non come confine tra identità distinte, ma come uno spazio di
scambio culturale. Dal Sud Mediterraneo provengono i libanesi Sanam, che sprigionano intensa energia interpretando testi di poeti e compositori arabi, contemporanei e non. Il piccolo liuto buzuq si fonde con strumenti rock ed elettronici, in un’attitudine post-folk che richiama echi di kraut-rock e free jazz. Sugli scudi, lo strabiliante duo serbo-bosniaco Daniel Lazar & Almir Mešković, in scena al Theater im Stadthaus: un dialogo virtuosistico tra violino e fisarmonica che unisce danze balcaniche e composizioni originali. Una scoperta sono stati i Lidová muzika z Chrástu, ensemble folklorico della Boemia occidentale (Repubblica Ceca). Vestiti con abiti ispirati alla fine del XIX secolo, interpretano brani tradizionali delle regioni meridionali e occidentali della Boemia, oltre a canti dei Sorbi di Lusazia, minoranza slava della Germania. La loro strumentazione comprende violini, fiati, voci e la cornamusa boema dudy. Dall’approccio filologico si passa a chi spinge le tradizioni verso il futuro: sono gli inglesi Shovel Dance Collective, un nonetto avant-folk londinese. La formazione include voci, flauti, whistles, clarinetto, violino, cittern, bouzouki, chitarra, banjo, arpa, hammered dulcimer, organo a pompa, percussioni, trombone e armonica… e forse ho dimenticato qualcosa. Fondono drone music, elementi tradizionali, improvvisazione, jazz e canto a cappella. Destrutturano danze e melodie tradizionali,
riprendono sea shanty, ballate e canti dalla forte vena politica working class e libertaria. Sempre parlando di proposte rivolte alle nuove generazioni, gli scozzesi Yoko Pwno, da Edimburgo, portano energia e irriverenza: con violino, voci, banjo, fiati, batteria e synth propongono ritmi solidi e begli impasti vocali, dando vita a uno spettacolo vibrante. A suon di swing, fiati e rock’n’roll avanza la Big Band of Boom da Birmingham, altro ensemble che imprime una marcia dance al suo recital. Per chi ha preferito le danze da apprendere con rigore negli appositi stage (in un tendone nel parco è stata allestita una pedana perfetta per i cultori del ballo), l’offerta è stata ampia e coinvolgente, con gli inglesi Topette!, il violinista della Louisiana Jourdan Thibodeaux et Les Rôdailleurs, i quebecchesi Le Diable à Cinq, il calabrese Progetto Tarantella e gli occitani Los Cinc Jaus, dal Massiccio Centrale. Un altro filone esplorato è stato quello degli incontri interculturali: Jusur nasce dall’unione tra due rifugiati siriani di Erfurt (a qanun e saz) e quattro musicisti tedeschi (fiati, oud, violino, percussioni). Danno vita a un takht, ensemble da camera arabo tradizionale. Connettono mondi anche gli Além Cabul, gruppo formato da musicisti della regione portoghese dell’Alentejo (viola campanica e violino), una cantante spagnola dell’Estremadura, una violoncellista statunitense, un percussionista 
brasiliano-portoghese e un tablista e suonatore di harmonium rifugiato afghano. Tra i “postmoderni decoloniali”, come si definiscono, ecco i Niyaz, formazione indo-iraniana allargata, che fonde strumentazione classica mediorientale ed elettronica, trasponendo testi e melodie radicati nella poesia sufi e nelle tradizioni popolari. Tra i nomi di casa spiccano la soul singer Ledisi, che ha suonato con l’orchestra Thüringer Symphoniker, lo storico gruppo Liederjan (attivo dagli anni ’70) e i bavaresi MaxJoseph, con una personale e vivida visione della musica alpina. Da segnalare, soprattutto, la JugendFolkOrchester, composta da giovanissimi musicisti (12-26 anni) provenienti da tutta la Germania, interpreti di inediti repertori popolari tedeschi rinnovati, lontani da derive reazionarie del passato e del presente. Sempre parlando di Germania, un momento speciale è stato dedicato al waldzither, cordofono simile al cittern e considerato “strumento nazionale” della Turingia: il suo recente inserimento nel patrimonio culturale immateriale dell’UNESCO è stato celebrato con il concerto “Waldimania” di Tim Liebert. Emozioni intense ha regalato il concerto del leggendario pianista jazz sudafricano Abdullah Ibrahim, il cui pianismo si distingue per un fraseggio misurato e digressivo, arricchito da sottili variazioni e passaggi improvvisativi. Di fronte al palco dell’Heidecksburg si è creata
una tensione emotiva, silenziosamente condivisa, interrotta solo nel finale dalla standing ovation che ha accolto il toccante recitato di Ibrahim. Il pubblico ha risposto mormorando la melodia: un momento da brividi. Dopo la chiusura ufficiale nella Piazza del Mercato, con la breve rassegna di alcuni protagonisti della manifestazione, il sipario è calato domenica sera all’Heinepark, dove si sono succeduti il concerto dell’orchestra di virtuosi lautari guidata da Ionică Minune, maestro della fisarmonica di chiara fama, e quello dei rutilanti Dubioza Kolektiv, bosniaci che spaziano dal rap al rock, dallo ska al punk. L’appuntamento con il Rudolstadt Festival è fissato per il primo weekend di luglio 2026, con un focus musicale dedicato all’Austria. 


Ciro De Rosa

Foto e video di Ciro De Rosa

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