Mauro Palmas, Tra le mie corde. Maria Gabriela Ledda racconta Mauro Palmas, Isola Palma 2025, pp. 128, euro 20,00 Libro con Cd

C’è un modo di raccontare la musica che non passa per le classifiche, i palchi celebri o i riflettori accesi. Un modo che si nutre di strade polverose, radiatori rotti, notti passate nei pulmini e risate in camerino. È questo il cuore pulsante di “Tra le mie corde”, libro con Cd edito da Isola Palma e firmato da Maria Gabriela Ledda che da voce al racconto di Mauro Palmas. Un libro-narrazione che nasce da un'idea cinematografica mai realizzata e che si trasforma in racconto scritto, con lo stesso spirito vivo e ironico del dietro le quinte musicale. Lontano dalla retorica del successo, Palmas apre le porte del suo percorso umano e artistico, fatto di strumenti vissuti e scelte sonore essenziali, ma anche di riflessioni politiche, errori, e momenti in cui la musica si intreccia con la vita vera, quella che pulsa fuori dal palco. In questa conversazione, Mauro Palmas ci accompagna in un viaggio tra ricordi, consapevolezze e corde — fisiche e metaforiche — che continuano a vibrare.

Com’è nata l’idea di realizzare “Tra le mie corde”?
In realtà, l’idea iniziale era fare un film dal titolo “Tournée” a cui affidare il racconto di tutti gli aneddoti di quando si va in tour, tutte le cose più ridicole. In effetti, sono le cose che poi sono finite nel libro: tutte storielle brillanti, a volte divertenti. Questo libro non parla dei grandi palchi, dei grandi successi — quelle
cose magari le lasciamo dietro. Qui si parla del radiatore, del pulmino, dei mezzi di trasporto, delle difficoltà che si affrontano per arrivare a fare il concerto. E alla fine, proprio il concerto diventa quasi la cosa meno importante, perché la cosa più importante è riuscire ad arrivarci. Una volta che sei arrivato, puoi anche suonare meno. Volevo raccontare queste storie in un film, ma poi mi sono chiesto: come faccio, se io sono uno degli attori, a fingere di avere 17 o 18 anni alla mia età? Trucco e parrucco non bastano. Allora, anche per una questione di costi, abbiamo rinunciato al film e deciso di fare un libro. Poi ho cercato un editore pazzo… e l’ho trovato in Paolo Lugi, che ha deciso di buttarsi in questa follia. E così è nato il progetto.

Parliamo della parte narrativa: ci sono molti rimandi, ovviamente, ma anche riflessioni sulla musica e su come si intrecciano con il tuo percorso. Questa cosa è voluta o è sorta in modo naturale?
Nel libro tutto è voluto. Ogni cosa è stata pensata, ragionata, corretta, ricorretta. Nulla è lasciato al caso. Io e Gabriella ce ne assumiamo totalmente la responsabilità. È anche un modo per esprimere qualche piccola sentenza attraverso i racconti e le storie. In alcuni momenti si riflette sulla musica, ma anche su errori del passato, su situazioni politiche… Insomma, attraverso queste storie — che possono sembrare banali o divertenti — passa anche la Storia, quella con la S maiuscola.

Parlare di questo libro significa parlare di tante cose, no?
Dà lo spunto per una discussione più profonda su tante situazioni. Sono episodi vissuti quando avevo diciassette, diciotto anni. Oggi, con qualche anno in più, le riflessioni cambiano, i ragionamenti sono diversi, completamente diversi.

Mi ha colpito molto il modo in cui intrecci le cose: parli di politica, di musica popolare, ma anche di molto altro…
Perché per me la musica è politica.

C’è poi l’idea della sottrazione nella musica, della dimensione della sottrazione. E il modo in cui hai ricondotto tutto ai tuoi strumenti: strumenti che hai studiato, percorso, vissuto attraverso tante esperienze. È questa, secondo te, la particolarità del tuo percorso?
Intanto, io sono un musicista ignorante, nel senso che non ho fatto studi classici di composizione e arrangiamento. Quando mi è capitato di scrivere per archi — e l’ho fatto — ho preso il mio strumento, la mandola, che ha quattro corde, e ho assegnato a ciascuna corda una parte d’orchestra: sulla corda più bassa ho messo il violoncello, poi la viola, poi il secondo violino e infine il primo. Ho scritto gli archi armonizzando tutto sul mio strumento. Tra l’altro, è anche un metodo corretto. Quindi tutta la mia musica nasce da lì, dal mio strumento. Quanto alla sottrazione, è una bella cosa. In tempi di vacche grasse si poteva permettersi il quartetto d’archi, o addirittura una piccola orchestra. Ho messo in piedi produzioni con orchestra, anche per condividere la responsabilità: l’impatto sonoro diventa più forte, e chi ascolta si trova davanti a qualcosa che “deve” colpire. Poi, però, inizi a limare, a togliere, a togliere… e arrivi all’essenza. Se una composizione sopravvive all’essenza, ad esempio in un trio come il nostro, allora forse ha davvero qualcosa da dire. Questo è un disco che io riesco ad ascoltare e che mi piace molto. E se piace a me, magari troverò qualcun altro nel mondo con cui condividerlo. Non credo che diventerò ricco con questo libro. Non credo che la gente si strapperà i capelli, ma spero che qualcuno possa trarne giovamento, ascoltandolo.

Accanto alla parte narrativa, c’è il ritratto musicale attraverso i tuoi dischi, curato da Salvatore Esposito…
Lo sguardo sulla mia discografia è interessante, soprattutto perché io non ci sarei mai arrivato da solo. Ti costringe a rivedere una serie di cose che avevi tralasciato. Arriva un momento in cui fare il punto, mettere ordine nel cassetto dei ricordi — tra fotografie, registrazioni, dischi — ha davvero senso. Non ho voluto inserire tutte le collaborazioni, perché sarebbero state infinite. Ti faccio un esempio: ero da Duccio Pasqua a “Stereonotte”, a Saxa Rubra. Sono arrivato due ore prima e abbiamo cominciato a frugare nel computer. A un certo punto Duccio mi dice: “Ma tu hai fatto un disco con Benito Urgu?” Io: “No, giuro di no”. E lui: “Sì che l’hai fatto”. Ha tirato fuori il disco… ed era vero. Me l’ero completamente dimenticato.



Mauro Palmas, Tra le mie corde. Maria Gabriela Ledda racconta Mauro Palmas, Isola Palma 2025, pp. 128, euro 20,00 Libro con Cd
Ha ragione Bruno Gambarotta a dire che “Tra le mie corde” - il libro che racconta la vita musicale di Mauro Palmas - è un romanzo di avventure. A ragione, lo scrittore piemontese, che ha presentato il libro all’ultima edizione del Salone di Torino, individua tra le pagine di questo viaggio a ritroso e in avanti – che Mauro Palmas ha ricostruito con Maria Gabriela Ledda – la dimensione non tanto di un viaggio (o almeno non di uno solo), quanto di un movimento costante e ciclico. La dimensione di un processo intersecato nella vita di Palmas, che si definisce pian piano con condivisioni, incontri e scontri. Il percorso non è solo uno spostamento, ma un insieme di movimenti, come quelli che Palmas scrive - a partire dalle corde della sua mandola – nella partitura per orchestra d’archi. Il percorso è anche un movimento verso i mondi che immagina, costruisce e ricorda. Da quello radicato nella Sardegna della sua infanzia e prima giovinezza, in cui resta ammaliato dal suono del quartetto di corde, che raggiunge, quasi di nascosto, nel bar di via Puccini dove i musicisti si ritrovano (“eleganti e dall’aria importante, seduti intorno a un tavolino, si muovevano con maestria in un vortice di suoni d’altri tempi”), e dal mandolino dello zio, che gli instilla per sempre l’amore per le quattro corde. Da quello che ruota intorno alla musica pop degli anni Sessanta, che imperversa come una tempesta sulla prima generazione del dopoguerra (Beatles e Shadows in prima fila) a quello dei movimenti studenteschi e operai delle periferie della periferia, fino alla canzone di protesta, alla tradizione cantautorale, a ciò che chiamiamo world music e alla sua personale musica da corda. Mauro Palmas si muove nella musica, che è la sua vita e la sua politica, incorporando, prima ancora di selezionarli, gli stimoli infiniti di un presente e un passato che sente di assorbire per natura, con più sensibilità, con più partecipazione. La sua attenzione musicale - che si ingenera spontaneamente dalla passione giovanile - non lo limita, anzi lo apre, per fluttuare, con la leggerezza di chi sente che arriverà il momento della chiarificazione, della scelta appunto, nelle correnti dei grandi movimenti, delle culture espressive che si intersecano, dei suoni degli amplificatori e delle chitarre Eko che caricava sui tram e delle launeddas, lo strumento straniante e radicale che incardina la Sardegna nella sua storia più profonda. Da questo corpo suonante arcaico, grezzo e ricolmo di bellezza, comprende, grazie anche alla frequentazione di Luigi Lai, una forma di verità che lo illumina: non posso realmente suonarlo, mi sto limitando a soffiarlo. La differenza tra i due approcci è abissale e trasborda di consapevolezza generativa: “questo strumento richiede una vita interamente dedicata, come un credo religioso, come un rito da osservare senza sosta”. E quindi, da quel momento “mi sono dedicato esclusivamente agli strumenti a corda”. Sviluppando, però, una tecnica personale, “che nasce dalla suddivisione ritmica del ballo sardo (che bisogna padroneggiare con la testa prima che con le mani) e comporta movimenti di plettro e intervalli tra mano destra e mano sinistra”. Ad ogni modo, in quelle circostanze contaminate (sono bellissimi i passi in cui si racconta più dei viaggi verso i concerti che dei concerti stessi) Mauro Palmas annoda parecchi fili, che ancora oggi ci sembra di vedere srotolati lungo le sue numerose produzioni discografiche e performance. Il suo assetto da cordista (suonatore di mandola e liuto) con l’occhio alle tradizioni espressive sarde e ai riflessi della cultura musicale contemporanea e moderna, propaga l’energia che gli si riconosce, la fuga dalla sosta che gli permette di scrivere, suonare e confrontarsi anche con la nuova generazione, ripercorrendo e rigenerando la sua traiettoria illimitata. Nel libro si ricorda – con una spontanea ammirazione che non nasconde né stupore né commozione – il talento del giovane organettista Giacomo Vardeu, col quale ha pubblicato recentemente “Sighida”, un album di sole corde e mantice con cui Palmas ha anche inaugurato l’etichetta discografica “Mare e Miniere”. Questo indugio su Giacomo è tutt’altro che banale, perché spinge quella traiettoria ancora più in avanti, nello spazio inespresso di un futuro etnomusicale di cui abbiamo (per fortuna) segni già tangibili e a proposito del quale, lo diciamo spesso in queste pagine, immaginiamo grandi sviluppi. Visto che l’avventura sulle corde di Mauro Palmas è soprattutto musicale – quella musica che attraversa generi e mode – apparirà evidente che il suo racconto scritto non sarebbe stato sufficiente. Al libro, per questo, è stato affiancato un album, composto di brani inediti e altri editi (per un totale di dodici), riproposti in versione cameristica (ad eccezione dell’omaggio agli Shadows, che chiude la scaletta con “Genie with the light brown lamp”). E, per sorreggere la grande marcia e renderla più solida e cadenzata, il libro si chiude con una discografia ragionata a cura di Salvatore Esposito: un testo preciso ed equilibrato, poggiato su una ricerca attenta nella prateria discografica di Palmas, ricco di spunti e informazioni fondamentali per chi, come chi scrive, vorrà orientarsi – una volta letto il libro – e percorrere alcune delle sue corde avventurose.


Daniele Cestellini

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