Pacha Wakay Munan – El tiempo quiere cantar (Buh Records, 2025)

L’archeomusicologia è una disciplina che, come suggerisce il nome, aspira a ricostruire le civiltà musicali del passato sulla base delle loro testimonianze archeologiche: strumenti musicali ritrovati negli scavi, iconografia e ogni altra possibile fonte che ci avvicini a quei mondi sonori non più udibili. Tuttavia, come ammoniva Isidoro di Siviglia, santo visigoto ispanico vissuto nel lontano VII secolo, prima che Guido d’Arezzo rivoluzionasse la scrittura musicale occidentale, “soni pereunt”: i suoni si perdono, e solo la memoria orale li potrebbe tramandare. Ma sappiamo bene che perfino in presenza di una scrittura musicale sostanzialmente familiare, come quella della nostra “musica antica” (dal medioevo al barocco), la pretesa di riportare filologicamente in vita il suono del passato si scontra con mille dubbi e interrogativi irrisolti. Figuriamoci nel caso di civiltà lontane e sostanzialmente prive di scrittura – non solo musicale – come quelle dell’America precolombiana. Ciononostante, l’esistenza in gran parte dell’area andina di un ricco patrimonio di strumenti musicali restituiti dagli scavi archeologici ha spinto diversi ricercatori e musicisti a raccogliere la sfida di rendere udibili quei mondi sonori, anche grazie al confronto con un complesso di tradizioni musicali di matrice precolombiana ancora assai vive. Su questa linea si pone il progetto Pacha Wakay Munan, bel titolo in lingua quechua che si traduce come “il tempo vuole cantare”. Come spiegano nelle liner notes i due etnomusicologi e musicisti peruviani che gli hanno dato vita – Dimitri Manga Chávez e Ricardo López Alcas – il progetto non pretende veramente di ricostruire un suono perduto, ma sì “di documentare ed espandere le capacità di questi strumenti in un contesto attuale, permettendo che le loro possibilità continuino ad essere studiate e ascoltate nel futuro”. In quest’ottica, Manga Chávez e López Alcas si pongono sulla scia di altre operazioni simili, a cominciare da dall’ormai “antico” disco “Precolombiadas” (1987), in cui l’etnomusicologo cileno José Pérez de Arce riportava in vita gli strumenti conservati al Museo Chileno de Arte Precolombino. I due etnomusicologi di Pacha Wakay Munan hanno dunque utilizzato un lungo elenco di strumenti archeologici dell’antico Perù – repliche di aerofoni e percussioni appartenenti alle culture Inca, Nasca, Moche, Chimu, ecc. - facendoli dialogare con strumenti e repertori della tradizione andina vivente, ma anche con elementi “spuri”, come ad esempio il pianoforte, il yembè, o la sequenzializzazione elettronica, grazie alla collaborazione di alcuni musicisti ospiti: Ximena Méndez, Ronald Sánchez, Orieta Chrem, Camilo Ángeles, Ángel Pantoja, Chalena Vásquez. Il risultato è una track list che in generale propone una gamma di sonorità della musica rurale comunitaria delle Ande, dai consort di flauti dritti o di pan (quenas, tarkas, sicus…) ad altri aerofoni tradizionali molto meno comunemente ascoltati, come le diverse trombe naturali (ricavate da conchiglie, corna, ecc.) o gli affascinanti flauti globulari (ocarine) ricavate dal cranio dei cervi. L’accostamento di tali strumenti a quelli che per molti aspetti ne sono gli antenati (antaras Nasca, sicus di quarzo, vasi-fischietto…), e a tutta una gamma di sonagli e vari idiofoni antichi, moltiplica il ventaglio dei timbri e dei colori, oltre a dilatarne lo spessore temporale lungo un arco di molti secoli. Ecco alcuni esempi di questa operazione, che comprende 8 tracce. La traccia “Machu tara” esplora la sonorità denominata appunto “tara”, che si potrebbe tradurre come “doppia”, o piuttosto multifonica e “battente”, che si ottiene eseguendo simultaneamente note di intonazione solo leggermente diversa. Questa sonorità, così lontana dal gusto eurocolto per l’intonazione precisa, è propria di svariati flauti e fischietti “doppi” impiegati oggi nelle Ande, ma è anche ben testimoniata dai ritrovamenti archeologici e costituisce perciò un affascinante filo rosso dell’estetica musicale amerindia. Nella traccia “Sikura y Nasca” troviamo invece una melodia tradizionale della cultura Aymara del Cile settentrionale, ripresa da una registrazione etnografica degli anni 70, che viene dapprima eseguita da un consort di flauti di pan tipici del luogo, denominato “sikura”, e successivamente reinterpretata con repliche di flauti di pan archeologici, le antaras della cultura Nasca (la stessa dei famosi geoglifi o “linee”). Le antaras in ceramica ritrovate nelle necropoli Nasca costituiscono un nutrito complesso di flauti, non meno intrigante dei misteriosi geoglifi, dato che ad oggi gli studi condotti non hanno permesso di determinarne con certezza il sistema musicale che lo governa, ossia le scale impiegate. L’interpretazione di Pacha Wakay Munan, pur non avendo una correlazione diretta con la musica Nasca, associa in forma del tutto ipotetica e immaginativa uno stile esecutivo a questi strumenti, permettendo di apprezzarne il particolare temperamento. Ancora le antaras Nasca sono protagoniste nella traccia “Mundo posible” (Un mondo possibile), basata sulla registrazione di una sessione di improvvisazione, risalente al 2012, in cui i flauti precolombiani dialogano con il pianoforte, suonato dalla compianta etnomusicologa peruviana Chalena Vásquez. La presenza di Chalena, autentico nume tutelare della musica popolare peruviana, ci suggerisce che non siamo in presenza di un’operazione in stile “New Age” (deriva non infrequente in questi terreni) ma di un prodotto fondato su ricerche ed esperienze documentate e oltretutto, a leggere i testi a corredo dell’LP, esente da discorsi nazionalisti o ingenuamente indigenisti che talvolta accompagnano le rivendicazioni culturali nell’area andina. “El tiempo quiere cantar”, pubblicato dall’etichetta indipendente peruviana Buh Record e registrato presso lo studio Tribu di Lima, è disponibile in formato digitale sulla piattaforma Bandcamp e in un’edizione limitata in vinile. 


Stefano Gavagnin

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