Ian A. Anderson, Alien Water, Ghosts From the Basement, 2025, pp. 320, £13,00

Eccome se ne ha da raccontare, Ian A. Anderson, in questo suo memoir. Da dove cominciare? Ah, sì – forse dal fatto che non è “quel Ian Anderson”! Quante volte avrà dovuto spiegarlo! Lo Ian di cui parliamo qui, come lui stesso chiarisce con humour: “ha entrambe le gambe, non suona il flauto traverso né indossa un sospensorio”. E l’iniziale A. l’ha dovuta aggiungere proprio per evitare la confusione con il flautista dei Jethro Tull. Ha “sguazzato” per almeno sei decenni – come recita il sottotitolo del volume, “Six Decades Paddling in Unpopular Music” – in quella vasta e affascinante galassia delle musiche impopolari. Musicista (chitarrista e cantante) con numerosi dischi all’attivo, direttore artistico, gestore di folk club, promoter, tour manager, tecnico del suono, manager di etichette discografiche, talent scout in patria e all’estero: un vero uomo-orchestra del panorama musicale indipendente. Ha trasmesso musica da ogni tipo di stazione radiofonica, dalle emittenti locali a BBC World Service, e transitando per tutti i canali BBC Radio nazionali, Capital Radio e Jazz FM. È stato anche fotografo e, naturalmente, co-fondatore e direttore di “Southern Rag”, poi “Folk Roots” e infine “fRoots”, rivista cult per la musica folk, roots e world, autentico punto di riferimento per 40 anni (1979-2019). Una pubblicazione a cui chi scrive queste righe deve molto: nello stile, nella ricerca, nell'approccio. Non pago, Anderson oggi è anche ideatore e conduttore del podcast mensile “Podwireless”. Altro che semplice “Jack of all trades”: è uno dei Cavalieri (forse non senza macchia) della scena folk britannica, quella che ci si ostina a definire folk revival, quando invece, come lui puntualizza, “Lungi dal far rivivere qualcosa, gli inglesi dovettero inventare qualcosa di nuovo”. Il titolo del libro? “Alien Water” è una deformazione scherzosa di Lord Allenwater, ballata trascritta da Ralph Vaughan Williams nel 1905 (Child Ballad n. 208, per i folkloristi) dalla sua bisnonna. È un’autobiografia – 320 pagine corredate da 16 pagine fotografiche, con copertina illustrata da Alex Merry – ma è anche molto di più: un viaggio pieno di digressioni musicali, popolato da innumerevoli figure di artisti, produttori, giornalisti e studiosi, celebri e non. Solo per citare alcuni musicisti, si passa da Fred McDowell a Ralph McTell, da Martin Carthy (e la sua inestimabile famiglia) a Ian Campbell, da Alexi Korner a Dave Evans (chitarrista eccelso quasi dimenticato), da Dembo Konte ai Tiger Moth, da Maggie Holland a Flaco Jimenes, da Tymon Dogg ai Tarika, da Baaba Maal agli Snakefarm, da Joe Strummer a Spiro, dai 3 Mustaphas 3 fino a misconosciuti artisti greci e di altri angoli remoti di “local music out there”. Sì, perché Ian A. Anderson era anche tra i presenti al pub Empress of Russia nel 1987: un incontro cruciale tra responsabili di etichette indipendenti e figure chiave della scena musicale, tra cui Charlie Gillett, Ben Mandelson e Joe Boyd, riuniti per discutere strategie di marketing finalizzate a catalogare musiche già esistenti sotto un nome nuovo: world music. Una cronaca che, se ancora ignota, dovrebbe essere letta con attenzione da etnomusicologi e studiosi — ma anche da certi artisti — che hanno contribuito alla diffusione di una vulgata disinformata e liquidatoria sull’origine di questa categoria, come se il termine fosse stato coniato da un manipolo di cospiratori etnocentrici (quando in realtà era già in uso). Un approfondimento ulteriore lo offre anche il fondamentale “And the Roots of Rhythm Remain” di Boyd, altra lettura imprescindibile. Tornando ad “Alien Water”, il libro documenta momenti musicali epocali e storie poco note che raramente si trovano fissate su carta. Anderson rivendica l’urgenza della memoria, dichiarando di voler mettere insieme i suoi ricordi “prima che tutto il mio cosiddetto archivio finisca probabilmente nei cassonetti del riciclo dopo la mia dipartita”. Come restare impassibili alla narrazione della scoperta di Ali Farka Touré, che proprio nel 1987 incideva il suo LP con la World Circuit? O davanti alla sequenza incalzante di musicisti, strumenti, e generi che ridefiniscono l’orizzonte del musicale? Il tono del libro non si avvale di uno piglio accademico, è fluido, a volte controllato, altre più libero e a briglia sciolta. È la voce di chi la musica l’ha vissuta da dentro, ha “fatto la storia del folk”, e non le manda a dire quando si tratta di lanciare frecciate (uso un eufemismo) all’atteggiamento aggressivo dell’allora concorrente rivista “Songlines, o nel dar conto della poco edificante incursione malgascia e l’attacco nei suoi confronti (Anderson era agente di un gruppo malgascio in ascesa in cui suonava la sua compagna) di due musicisti americani, non nominati ma riconoscibili come Henry Kaiser e David Lindley. Non si tratta, tuttavia, di un banale catalogo di aneddoti. È la cronaca di una vita immersa nella musica. I primi capitoli ci parlano del contesto familiare di Ian, nato a Weston-Super-Mare nel 1947, dell’adolescenza, della scoperta del blues di Muddy Waters, l’impatto del blues in Inghilterra, lo sviluppo del folk britannico e della fortuna di ascoltare grandi maestri al loro apice, ma anche nuovi talenti. Anderson diventa uno dei nomi del panorama folk e blues britannico, animatore di serate nel circuito che conta, dal Les Cousins di Soho a Londra al Troubadour di Bristol. Si parla, inevitabilmente, di folk club, di amicizie durature (Mike Cooper e la sua chitarra National), di incontri epocali – come quello con Maggie Holland, sua prima moglie – e di concerti in festival che diventano epocali come Glastonbury. Poi arriva Village Thing, la sua prima etichetta, che scrittura nomi del calibro di Steve Tilston e Wizz Jones (da poco scomparso, chitarrista straordinario). Il periodo successivo lo vede protagonista con gli Hot Vultures, con la fondazione della Rogue Records, la creazione della English Country Blues Band, dei Tiger Moth, l’incisione di dischi con maestri della kora... Un percorso che dalle cantine dei folk club approda alla nascita e affermazione dei grandi festival, raccontata da chi ne è stato testimone diretto. Ne emerge una riflessione lucida su estetica, suono, mercato. Una dedizione totale nel praticare e divulgare musiche non mainstream, nel costruire ponti culturali, nel vivere la gioia della performance. Per chi, come chi scrive, è immerso in queste musiche da tanto tempo, il libro risuona come un bilancio personale e affettivo: incontri, concerti, dischi comprati a Londra (Dobell’s, Collet’s, Trehantiri, solo per citarne alcuni). Il nuovo millennio porta cambiamenti nella fruizione della musica: lo streaming, la crisi economica, la Brexit, il Covid, che hanno messo in difficoltà club e, recentemente, anche i festival. “fRoots” ha chiuso, ma Anderson ha continuato la sua instancabile opera: è tornato a esibirsi, ha fondato la nuova etichetta “Ghosts from the Basement”, ha registrato con Mandelson (il duo The False Beards), ristampato il suo vastissimo repertorio e creato antologie di pregio (https://ghostsfromthebasement.bandcamp.com/album/ghosts-from-the-basement), e come detto, cura una selezione musicale indipendente nel podcast “Podwireless”. “Alien Water” potrà sembrare, a qualcuno, un indulgere nostalgico tra le memorie per attempati folkettari – e in parte lo è – ma è soprattutto la testimonianza emica di un attivatore di idee, un autore dal tono schietto e personale che invita a rallentare, ad ascoltare, a riscoprire. Offre uno sguardo insieme ampio e minuzioso, onesto e vitale, su sessant’anni vissuti tra le musiche non popolari. Pagine da leggere. Senza esitazione. https://ghostsfromthebasement.bandcamp.com/ 

Ciro De Rosa

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