Carmine Ioanna – Badawi (NoWords/SoundFly, 2024)

Album variopinto e ricco di sfumature, con colori accesi e intensi, “Badawi” ci spinge a pensare alla musica come a uno spazio di soluzioni infinite. Non solo per quel che riguarda la scrittura e l’assetto degli autori che la sperimentano – in questo caso l’autore è Carmine Ioanna, fisarmonicista di grande ispirazione – ma soprattutto per gli strati che riesce a contenere, mischiando elementi tanto distanti quanto evidentemente fluidi. Il colore dell’album di Ioanna ricomprende milioni di sfumature – e ci sorprende spesso nell’abisso, nella sensazione vertiginosa di scoperta sensazionale. Da un lato perché le strutture dei brani, con i loro andamenti inaspettati, sono ricolme di idee che appaiono, a un primo ascolto, geniali: poi, andando avanti, comprensibili, incorporabili, concrete. Ancora, quindi, geniali (“Dezertango”). Insomma, ci convincono attraverso la loro evidenza, attraverso la loro coerenza irresistibile. Dall’altro lato perché quelle stesse idee ci sembrano vive fino in fondo: il loro dinamismo è trascinante e ogni passo, ogni tocco di tasto, ci afferra al collo e ci strattona fino all’inverosimile. Non vorremmo mai che gli otto brani in scaletta finissero (“Preghiera”). Proprio per la loro forma abnorme e paradossalmente metafisica, attraverso cui l’autore e i cinque musicisti coinvolti elaborano, con intenzione e allo stesso tempo naturalezza (onestà, ha dichiarato Carmine in qualche intervista), una vitalità difficilmente assimilabile da un percorso compresso in un album (“Carovane”). Ci sembra – richiamando anche le interpretazioni che la stampa ha condiviso sull’album – che gli elementi che hanno definito questa favola reale ci fossero tutti fin dall’inizio. E che, anzi, il percorso di Carmine – avviato diversi anni e album fa ormai – abbia assunto i tratti di una strada sicura. Non nel senso però che porta alla sicurezza inibente, ma in quello di una visione che, proprio attraverso la sua articolazione, orienta con equilibrio il movimento, lo spostamento. Se ci fermassimo, ad esempio, all’ensemble – contrabbasso (Giovanni Montesano), percussioni (Maquinho da Luz), chitarre e mandolino (Robson Cerqueira), oboe (Caroline Lemay) e violino (Mitchell Grobb) – percepiremmo qualche vena di sperimentazione ma non l’originalità dell’approccio: non la sicurezza dell’interpretazione di queste movenze magiche, piene e dense, leggere e incisive. Se guardassimo al genere – un jazz di base con sfumature ethno, che definiremmo appena distinguibili, o meglio evocate – non riusciremmo a leggere le incursioni dei suoni, che si intrecciano con agilità straordinaria (“Clessidra”). Guardando la musica, invece, riusciamo a vedere le interazioni vere tra i soggetti coinvolti – che si muovono dentro un’impronta scritta e, allo stesso tempo, mobile, fluida, tratteggiata (“Nadir”). Come ci ricorda “Souk”, il brano probabilmente più immediato dell’album (guarda caso), la strada ha portato Ioanna a sudest. In uno spazio reale – l’Arabia Saudita e i Valley Studios di Riyad, dove l’album è stato registrato – e al contempo astratto, ricomposto grazie alla tammorra di Luca Rossi: niente di meglio per immaginare, pur guardandolo, un angolo di mondo nuovo, che qui scopriamo dentro una cornice perfetta, seppur sfuggevole. I due strumenti – agli antipodi in tutto – si guardano con insistenza quasi ipnotica, sovrapponendo unisoni reiterati e rintracciando insieme una connessione, più che convincente, con l’astrattismo della socialità sospesa del mercato. Il mondo circostante è ricompreso nella grazia degli altri strumenti, che danzano precisi, sintonici, fino a fondersi nel manto sinfonico della fisarmonica. Schiacciando ogni dubbio sul valore dell’incontro tra diversi in diversi contesti, oboe e violino si abbracciano, percussioni e contrabbasso si sostengono, chitarre e mandolino si pungolano: per verificare e diffondere la bellezza dell’andare (“Masha”). 


Daniele Cestellini

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