E così purtroppo con la scomparsa di Louis “Tebugo” Moholo lo scorso 13 giugno, nella natìa Città del Capo dove era nato nel marzo 1940, se n’è andato anche l'ultimo sopravvissuto di un lungo e dolorosissimo esilio europeo, non solo musicale, iniziato a metà 1964. Un esilio non certo amato ma che ha saputo stravolgere poeticamente la storia dell’intera improvvisazione free di questa parte del mondo. Dopo l’impressionante raffica di premature dipartite succedutesi nel tempo, il re dei tamburi di Blue Notes, Brotherhood of Breath, Dedication Orchestra e Viva La Black sapeva da molti anni, che prima o poi sarebbe toccato a lui la sorte di chiudere per sempre quella porta. Superfluo ripercorrere le risapute tappe di una diaspora partita dalle vergognose e miserabili township dell’apartheid verso capitali occidentali ribollenti di fermenti artistici. Nessuno a Londra, prima di allora, aveva mai udito suoni kwela (musica da strada) o mbaqanga (il pop delle township), i musicisti sudafricani ne fecero un incalzante flusso di coscienza collettivo di cui si innamorarono all’istante Keith Tippett, John Surman, Mike Osborne, John Stevens, Mike Westbrook, Elton Dean, Harry Beckett... L’antenata della world music nacque in quel
momento, melodie semplici e ritmi ballabili marabi passavano attraverso altissimi gradi di creatività intellettuale senza perdere un grammo di genuinità e immediatezza, in continue tonitruanti fughe centripete e centrifughe. Produssero una totale trance liberatoria ed educativa fatta di oralità, improvvisazione e partiture da togliere il fiato a chiunque. Nessuno resisteva al potere sciamanico di quel caleidoscopio di tradizione indigena Zulu, Xhosa, Swazi, Sotho con hard bop e avanguardia newyorkese che si era rovesciato sulla scena, furente e pulsante, con il suo carico di spiritual jazz, swing e gospel. Vigoroso senso di appartenenza a una cultura ancestrale, melodie corali, dimensione sonora rituale generarono soli, duetti, trii, quartetti e via andare fino a orchestrazioni intere. Il tutto, per fortuna, ampiamente documentato da centinaia di capolavori imperdibili (su tutti ricordiamo i dischi prodotti dalla loro OGUN Records). Gli esperimenti sonori si formavano, smontavano e ricostituivano di continuo, in combinazioni molteplici, sintesi dell’intero universo sonoro jazz. In quei suoni c’era tutto quel che era
stato il processo di urbanizzazione e ghetizzazione nera di Johannesburg, la tradizione veniva terremotata dal free, tra note dolenti, ipnotiche, rabbiose e brucianti linee melodiche improvvisamente frantumate dal furore. Marginalmente i fratelli sudafricani impreziosirono anche dischi di rock, blues o cantautorato inglese, quali “Rock Bottom” di Robert Wyatt, “Bryter Layter” di Nick Drake, “Alexis” di Alexis Korner o “The Road To Ruin” di John & Beverley Martyn… Calore, spontaneità, passione e fratellanza si sprigionavano in fonte ispiratrice, trasformando difficoltà e sofferenze razziali, sociali ed economiche, in forza tanto impetuosa quanto evocatrice di profondità. La dichiarazione di uguaglianza di Nelson Mandela si era sposata alla frenesìa multicolorata con l’energia di un jazz innervato da tradizioni popolari nere. Ma nella loro mente c’era in ogni momento l’amato Sudafrica, sintetizzando, come scriveva secoli addietro il poeta, teologo e filosofo tedesco Georg Friedrich Philipp Freiherr von Hardenberg (Novalis): “Dove stiamo andando? Sempre verso casa”. Il rimpatrio in una terra di convivenza pacifica rimarrà per la quasi totalità di quella prima ondata artistico-migratoria, solamente
un sogno, altri solisti giungeranno da Soweto, Port Elizabeth, Durban e ogni loro suono continuerà a farsi cicatrice militante in favore di un’utopia democratica. Louis Moholo e Abdullah Ibrahim furono gli unici a veder realizzato il ritorno dopo tanti decenni, tanto felice quanto dolente, miele e zolfo com’era la loro musica che nessuno ha mai dimenticato. Anche pochi anni fa, infatti, lo Swedish Art Council ha prodotto a Stoccolma un doppio disco tributo a questi gloriosi musicisti ad opera del sestetto Oya ma non dimentichiamo certo i notevolissimi tributi italiani che si devono alla Minafric Orchestra o a Roberto Ottaviano. E pure in Sudafrica i semi hanno germogliato, l’ultimo è stato la realizzazione a Pretoria del disco-debutto di Ngo Ma: quindici giovani musicisti che esplorano tematiche di creazione, maternità, energia femminile, ruolo della donna contemporanea sudafricana. Nel 2004 Moholo aveva deciso di tornare a vivere nella township di Langa (“Sole” in lingua Xhosa) dov’era nato, quella confusa isola di edifici separati dal resto di CapeTown da strade, ponti e cimiteri, sorta come dormitorio per neri ancora prima dell’apartheid, nel 1927. Proprio il luogo da dove aveva anche preso
origine il primo movimento contro la politica del “pass” che in ogni momento avrebbe dovuto “giustificare” alla polizia razzista sudafricana i movimenti dei residenti. Dove il 21 marzo ‘60 vide una pacifica manifestazione ridotta a terribile Massacro di Sharpeville (odierno Gauteng) con l’assassinio per strada di settanta persone. Da quel giorno il sole in Sudafrica si era eclissato. Il sogno di quei musicisti significava indubbiamente anche ritorno a se stessi, il dio Ogun, divinità generica di lavoro e potenza, che si era materializzato lontano da casa, aveva permesso loro di andare, come sosteneva Bra Louis, solamente “indietro nel futuro”.
Flavio Poltronieri
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