Aleph Quintet – Hiwar (Igloo Recordes, 2025)

“Hiwar” in arabo significa “dialogo”, e questa è la parola d’ordine del nuovo lavoro del gruppo belga Aleph Quintet formato da Akranm Ben Romdhane (oud), Marvin Bulars (violino), Wajdi Riahi, (pinao), Thèo Zipper (basso) e Diogo Alexander (percussioni). L’album segue il successo di pubblico e critica del precedente, “Shapes of Silence”, che ha portato all’attenzione internazionale questa formazione. Dopo il mondo delle piante, da cui l’uomo ha sempre da imparare, solo la musica può compiere il miracolo della “simbiosi”, caratterizzandosi come una delle più alte attività antropiche. Lo scambio qui avviene tra culture, spazi, identità, esperienze che raggiunge una perfetta unità e in cui il risultato non è la somma delle sue parti ma ognuna di esse conserva le singole peculiarità. Schemi jazzistici incontrano maqam arabi, cicli ritmici, sul terreno di un’improvvisazione a strati e quasi sempre non lineare da cui germogliano invarianti sempre nuove, brevi cellule che si ripetono. Il sound che ne scaturisce si configura spesso come un gioco gestaltico di figura-sfondo in cui si fondono strutture etniche, interplay jazz, evocazioni di forme musicali del passato. In “Hair dance”, la leggerezza di una capigliatura danzante al vento è simbolizzata nell’ostinato dell’oud in primo piano a cui fanno da sfondo in una dimensione spaziale gli altri strumenti che delicatamente avanzano e si incastrano creando un sound dal sapore fusion. Verso la fine del brano è l’assolo della batteria ad essere in evidenza facendo spazio a quello del contrabbasso e per finire con un riff in dissolvenza. Segue “Monsters Are Everywhere” che ci ricorda che i mostri sono dappertutto, a volte dentro di noi (ma quelli di bravura li troviamo in questo brano), basato su un tema inquietante fatto da due coppie di suoni congiunti discendente (Mib-Reb Do-Sib) su cui si costruisce una magistrale impalcatura poliritmica e contrappuntistica di grande coerenza. I musicisti, senza soluzione di continuità, si passano il testimone mostrando, appunto, la loro abilità sui loro strumenti. Alla fine la sorpresa: era uno scherzo o solo un brutto sogno? Il risultato finale è un brano assai ben strutturato. “Samai”, dopo un’introduzione libera con due strumenti spesso all’unisono che propone un maqam sviluppato su un basso discendente, si apre pian piano a un interplay jazzistico con una splendida improvvisazione del pianoforte e poi degli altri strumenti senza perdere però il carattere decisamente arabo. “La chat noir” inizia con uno sfondo di suoni bassi e scuri a simbolizzare appunto un gatto nero che si muove a scatti su un ciclo ritmico e sulla melodia araba dell’oud, continua poi con una calda e virtuosistica improvvisazione che bandendo ogni superstizione ci rende l’animaletto bonario e simpatico. “Treize” ha una un andamento free jazz, ma subito il fraseggio del pianoforte porta il resto della band a una sincronizzazione ostinata e scandita dalla batteria e da un dialogo tra gli strumenti. Notevole l’assolo finale su suoni bassi glissato dell’oud che sfocia in una improvvisazione di fatta da suoni ribattuti e finisce con una lunga improvvisazione pianistica. A questo punto il cd ci presenta la sua vera sorpresa: una splendida suite, una delle più classiche forme musicali occidentali. Si tratta di “Hiwar-Preludio”, che dopo un inizio di grande ispirazione del contrabbasso apre una sezione decisamente free jazz ma alla fine riaffiora l’atmsofera iniziale. In “Hiwar-Follia” si ascolta una struttura costituita da glissati microtonali del’’oud su un suono basso continuo e ostinato forse per ricordare l’antica forma da cui trae il titolo. Nella parte centrale l’ostinato si sposta verso una struggente melodia in un regime armonico più tonale che da modi agli strumenti temperati come il pianoforte e il basso di inserirsi con le improvvisazioni. La texture diventa sempre più fitta e incalza un ritmo della batteria che sposta in avanti il tactus dando sfogo alle libere espressioni. Il secondo brano della suite è “Hiwar-Aria”, costituito da una melodia discendente fatta da poche note e da fonemi vocali inarticolati su una struttura armonica molto classica e ripetitiva. Pian piano la voce va nello sfondo ed emergono le improvvisazioni strumentali che riprendono il tema della voce. Il quarto brano della suite e ultimo dell’album è “Hiwar-Finale”, che in coerenza con tutti brani segue il cliché di un inizio quasi evanescente e di un progressivo aumento del groove e della texture. La sua struttura nell’ordine dei brani segue anch’essa una naturale evoluzione che si conclude con il finale in cui tutti gli artisti si esprimono a turno, seguendo quello che è un universale di tutta la musica del mondo. Un lavoro davvero meritevole di essere ascoltato.


Francesco Stumpo

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