Elli de Mon – Raìse (Rivertale Productions, 2025)

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Songwriter, cantante, polistrumentista e scrittrice, Elli de Mon riporta alla nostra attenzione uno scenario musicale a dir poco visionario. “Raìse”, infatti, è un album che racchiude molte idee non convenzionali, sia in termini di contenuto che di forma. Innanzitutto perché i dodici brani di cui è composto fanno parte – e lo si può intuire da un inconfondibile riverbero che li caratterizza tutti – di un orizzonte ben più ampio, che appare come il punto di confluenza di tanta musica e tante storie. In secondo luogo perché l’andamento generale è molto ruvido, impregnato di una sorta di verità nascosta: di verità musicale che la de Mon ha ricercato per lungo tempo nel blues e nella sua irriducibile mistica. Non è un caso, infatti, che molta strada Elli l’abbia percorsa verso quelle lande antiche e polverose dove ritroviamo le donne del blues (è autrice, lo ricordiamo, del volume “Countin' the blues – donne indomite”, uscito per Aracna), oppure gli sciamani del blues (come si legge provocatoriamente nelle note di promozione dell’album) tra cui la magica Bessie Smith, Fred McDowell e Son House. E non è un caso che la sua narrativa si dispieghi sia in musica che in scrittura, perché i linguaggi possano non avvicendarsi ma definirsi nel loro confronto a distanza: perché la parabola della parola e del suono possa assumere quel carattere mistico e, allo stesso tempo, concreto, corporeo.
D’altronde è proprio questo che ci trattiene avvinghiati al linguaggio del blues: il suono scarno, essenziale ma necessario, la dimensione metafisica di una lingua che trova la sua efficacia solo nel canto, il bisogno primitivo di riconoscere un’origine, un indizio, una direzione. In questa dimensione Elli de Mon sembra avere individuato numerosi riferimenti, che riesce (e qui arriviamo noi con le nostre impressioni) a determinare come condivisibili, credibili: insomma veri. Ascoltando “Raìse” – che è anche il titolo di un libro che Elli ha scritto sulla leggenda di Santorso, nome del suo paese natale in provincia di Vicenza – si ha l’impressione di muoversi dentro un suono inevitabile, avvolti in un’atmosfera che gronda leggenda e verità, storia e futuro. Sembra addirittura che l’autrice voglia spingerci sempre indietro, nella direzione della sua storia paesana, in una spirale rituale di riconoscimento, di partecipazione e comprensione quasi mitologica, totemica. Sant’Orso è evidentemente un santo e Santorso è, come detto, un paese. Ma la figura che ci viene rappresentata, attraverso un atto scaltro di esegesi, è Orso. Una figura
senza dubbio più vicina a noi e a ciò che ci interessa di più (perché più umana e permeabile), sebbene trasfigurata in una mistica irriducibile, in un percorso allegorico che ha molto a che fare con quello delle figure sciamaniche di cui sopra. Orso è il mistero, il buio, la risalita che Elli affronta e che, soprattutto, vuole cantare e suonare. Allora è giusto (perché probabilmente inevitabile) indugiare sulla sublimazione per avvicinare il mistero fascinoso del paganesimo o della religione popolare – la storiografia lo fa sempre anche con il blues di cui sopra – ma è necessario trovare la chiave di rappresentazione. Chiave che Elli de Mon ci mette in mano attraverso il suo dialetto (aprendo un varco abissale con i suoni lavori precedenti, tra i quali ricordiamo “Blues tapes: the Indian sessions”, album di fusione del blues con la musica indiana) e una selezione strettissima di strumenti suonati in modo acido, stridente, strisciato, (di nuovo) polveroso, rauco (aprendo una certa distanza con la dimensione onewomenband, non esclusiva ma molto caratteristica del suo assetto): contrabbasso, chitarre, ukulele, sitar, dilruba, harmonium, synth e batteria. 


Daniele Cestellini

Foto di Marco Olivotto

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