Il nome di Andrea Seki circola ormai da trent’anni nel panorama della cosiddetta musica celtica, ma Andrea non è un artista a cui si può dare un’omologazione di genere precisa, anzi: fa di tutto per essere sempre non etichettabile, pur essendo sempre fedele a sé stesso – e soprattutto alla sua inseparabile arpa neo-celtica elettrificata -, insistendo nel solco di una ricerca profonda e precisa.
Gli esperimenti notevoli col suo progetto originario, denominato “Elfic Circle”, incisi in numerosi album assistiti da ottime produzioni e distribuzioni negli ultimi decenni, sono stati apprezzati per la forte carica sperimentale che Andrea Seki ha sempre infuso nelle sue composizioni; influenze celtiche, e in particolare dalla Bretagna armoricana – dove Andrea risiede -, riverberi indianeggianti, dove egli ha studiato sitar e vissuto per anni, praticando duramente la dimensione del raga, e tutto ciò germogliato su un humus etrusco, che è la sua base originaria – proviene dalla Tuscia viterbese, dove di tanto in tanto torna a ricaricare le batterie ancestrali, oltre che a far base alle sue tournée italiche per presentare i suoi lavori. Questa mescolanza di culture antropologiche e musicali si cristallizzano in una personalità artistica complessa e strutturata che sembra, improvvisamente, distaccarsi da queste umanità variegate con cui è perennemente in contatto per costeggiare una dimensione liminale e parallela in cui si perde il contatto con la realtà e ci si addentra in un territorio misterioso di suoni, lingue, visioni e messaggi che affascinano e rapiscono, come se si entrasse in contatto con un’entità elfica.
Il titolo di questo ultimo lavoro richiama infatti ad una presunta memoria perduta dell’umanità, e Seki ci guida in una lunga riflessione sui temi che da sempre affronta: la ricerca della occulta Atlantide, gli inaccessibili (per i profani!) regni magici, siano questi delle profondità abissali e delle onde oceaniche, siano delle inaccessibili foreste esoteriche delle leggende nordiche; poi le isole consacrate alla Dea Madre, fino alle più estreme fughe siderali, verso la costellazione della Lira. Lunghi brani – otto in totale – in cui le composizioni originali dell’artista riecheggiano qua e la di movimenti musicali tradizionali che riaccendono la memoria su gli stili e le sonorità che ormai tessono la fibra umana stessa di Seki. Ecco allora le note ipnotiche che riconducono a un laridé, oppure una forma ballad che canta come una lullaby gaelica. Come meditazioni sospese, dettate da un mantra, che è la formula vocale espressiva preferita da Seki.
Questo album, ancor più dei precedenti, è ben radicato in una profondità culturale popolare – guai però a chiamarla folk – che subito decolla felicemente nello spazio insondabile dello sperimentalismo grazie agli arrangiamenti assolutamente originali e ad un accompagnamento ogni volta inedito. Qui, senza citare i tanti collaboratori che impreziosiscono l’opera, ricordiamo Daniele Sechi, fratello di Andrea, che lo accompagna con la batteria sin dagli esordi, e il multi-percussionista nordirlandese David Hopkins, nome arcinoto della scena adottiva bretone (Barzaz, Bleizi Ruz, Skeduz, ecc.).
La produzione è stata in questo caso interamente seguita da Andrea Seki, che ne firma il concept originale, oltre che i testi e le musiche. L’album, oltre alle note piattaforme digitali, è stato lanciato anche fisicamente in formato cd il giorno dell’Equinozio di Primavera 2025 ed è reperibile tramite i canali in rete che portano all’attività artistica di Andrea Seki.
Un’opera bella che fa sognare sui temi dell’immaginario fantastico e fa riflettere sulla realtà multiforme che ci circonda, trattando i temi ambientali e culturali che contraddistinguono i tempi ultimi. Un’altra prova che testimonia il fatto che in un’epoca di amalgama riduzionistica c’è ancora chi sa distinguersi per intransigente originalità.
Giorgio Calcara
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