Ricapitoliamo: studio del sitar fin dagli otto anni, primo concerto a tredici anni, primi due album intorno ai diciotto, la più giovane candidata a un Grammy “world music” nel 2003. Fin qui siamo nell’ambito della musica classica indiana. Poi prende forma anche il registro compositivo e, partire da “Rise” (2005), le sperimentazioni musicali di Anoushka Shankar nascono nel solco di sentieri narrativi. Il seme da cui sbocciano gli ultimi tre lavori arriva in un caffè di Goa, il giorno di Capodanno di due anni fa, quando scrive nel suo diario: “Tre capitoli, tre geografie”.
Ne avevamo parlato l’anno scorso a proposito dell’EP, nominato al Grammy, “Chapter II: How Dark It Is Before Dawn” (aprile 2024), una via introspettiva verso la guarigione, lo sguardo all'Oceano Pacifico, di notte. Il trittico ha come filo conduttore il continuum e l’alternarsi di luce-buio all'interno di luoghi sonori specifici, dai contorni emotivi e dai collaboratori. La prima puntata, “Chapter I: Forever, For Now” (ottobre 2023) è un'emozionante esplorazione della ricerca della gioia anche in mezzo a un trauma personale, suscitata dal ricordo di un pomeriggio trascorso con i figli nel giardino della sua casa di Londra.
Registrata da James Campbell egli studi Omnom Deli and Jacamar, nel sud di Londra, da metà marzo è disponibile la terza e ultima parte, “Chapter III: We Return to Light”: sei i brani, due i compagni di viaggio. Di loro Anoushka Shankar dice: “Alam Sarode è un amico fin da quando eravamo adolescenti; i nostri padri che hanno studiato diligentemente ai piedi del nonno di Alam, Baba Allauddin Khan. Poi venne il nostro turno di studiare e di trovare le nostre strade con i nostri strumenti, le nostre eredità. Parlavamo spesso di come sarebbe stato scrivere musica e suonare insieme, come avevano
fatto i nostri padri, ma alle nostre condizioni: l'aver trasformato quell'idea adolescenziale in realtà va oltre le parole. Alam è un musicista di una bellezza unica e sono entusiasta di ciò che abbiamo creato insieme.
Sarathy Korwar è mio amico e membro del gruppo con cui ho viaggiato per il mondo negli ultimi tre anni, dopo essere stata attratta dalla sua musica incredibile. Abbiamo condiviso i momenti difficili, ma anche l'emozione del palco, del suonare in totale sincronia. Sarathy ha contribuito in modo determinante a far nascere “Chapter III” come co-compositore e produttore, e mi ha aiutato ad arrangiare per i concerti i due capitoli precedenti”.
Anoushka Shankar ha anche avuto modo di ricordare che la prima canzone a cui hanno lavorato insieme è stata la seconda traccia dell’album “Hiraeth”, introdotta dal sitar, con le percussioni che entrano dopo che, a un terzo del brano, è stato introdotto il riff che diventerà l’ostinato guida e conclusivo: “Occupa un posto speciale nel mio cuore. Chi ha un orecchio attento riconoscerà il raga ‘Palas Kafi’ di mio padre tra le melodie in loop e le linee di sarod in sottofondo, un legame con le nostre origini, le nostre radici musicali e i luoghi che abbiamo chiamato casa”. “Hiraeth” è una parola gallese con cui si identifica una grave perdita.
In apertura, è “Daybreak” a dichiarare le due anime che
Anoushka Shankar fonde insieme in questo terzo capitolo: quella melodico-armonica capace di veicolare le sottili sfumature delle emozioni quotidiane e quella percussiva che sa essere all’occorrenza più quadrata e attenta al ballo. Quest’attenzione è particolarmente evidente in “We Burn So Brightly”, il secondo singolo, cassa dritta in evidenza e arrangiamenti vorticosi: “Ci siamo immersi profondamente nei ritmi reciproci, sfruttando il potere del movimento e la capacità del corpo di bruciare le cose che devono essere eliminate. Ci sono poche cose, a mio avviso, più alchemiche che perdersi nel movimento, sentire il battito nel profondo del petto e lasciarsi andare alla danza senza pensieri fino all'alba”. Più variata ed interessante dal punto di vista ritmico risulta “Dancing on Scorched Earth” con i loop di basso a fare da ancora ipnotica e ballabile.
Si conclude in modo rilassato, prima con la fluida e cantabile “Amrita” e, nel finale, con “We Return to Love”, basato sul raga “Manj Khamanj”, scelto a volte dai padri di Shankar e Khan per chiudere i concerti, impreziosito dal connubio di sitar e sarod che dialogano con gli accenti delle tabla in chiave meditativa, con i suoni che rendono palpabile la loro natura di onde, sospinte dalle percussioni: insieme parlano di luce, di cicli temporali e affetti che si rinnovano, di un approdo desiderato.
Alessio Surian
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