Il concerto ha inizio con la recitazione di quella farfalla macabra che è diventata l’ultima incisione postuma di Leonard Cohen: “Listen To The Hummingbird” su musica del figlio Adam, che funge anche da introduzione a “Who By Fire?”, canzone ispirata dalla liturgia apocalittica ebraica “Unetaneh Tokef” di epoca bizantina. La preghiera medievale descrive l’annuale giornata del giudizio quando Dio apre il Libro della Vita dove sono elencati i nomi di quelli destinati a morire entro l’anno e la causa del loro trapasso. Seguono “Ain’t No Cure For Love” cantata da Siv Fagervoll Gunnerstad, “I’m Your Man”, lista delle innumerevoli promesse all’amata da parte di un cascamorto e “Alexandra Leaving”, interpretata da Hilde Dahl, dove vengono prese a prestito le liriche del poeta greco Kostantinos Kavafis mentre saluta in maniera definitiva l’amata Alessandria d’Egitto. La città diventa la donna che Cohen è sul punto di perdere, l’autore cita “musica squisita” e vino che unendo contentezza e turbamento, permettono di godere del presente. È quindi la volta di “Everybody Knows”, amaro elenco di frasi comuni usuali durante ipocrite conversazioni quotidiane e poi di “Suzanne” brano che, molti decenni fa, più di tutti fece conoscere Cohen. La bella derelitta annunciava fin da subito il rincorrersi degli amanti senza raggiungersi, che solo la divinità avrebbe potuto far loro da tramite e che il vero eroismo può celarsi nei luoghi più umili. È sempre la sconfitta a restituire umanità e Cohen mettendo insieme immagini fino ad allora separate ha generato illuminanti e inedite combinazioni poetiche. “Dance Me To The End Of Love” è un sortilegio di sensualità e carnalità che descrive l’orrore delle agghiaccianti esecuzioni musicali da parte di un’orchestrina di ebrei internati costretti a suonare per accompagnare i loro compagni introdotti nei forni crematori nazisti. La conclusione dell’incontro è riservata a “Hallelujah”, canzone che nelle prime righe
descrive David mentre suona la cetra per far piacere a Dio e quietare l’anima di Saul, figura tragica e proprio predecessore sul trono d’Israele. Cohen indica la progressione degli accordi, intravedendo un salmo nell’imperfezione dell’essere umano, sacralità nel profano, salvezza nell’ambiguità. Arriva a includere Dio nel piacere sessuale quando la morale religiosa cristiana l’ha sempre considerato un atto peccaminoso. L’incomprensione generalizzata e superficiale di cui gode tuttora questo brano è pari al suo successo commerciale. Cohen si era connotato immediatamente nell’ambiente newyorkese, come figura fuori sintonia nell’atmosfera “figlia dei fiori” del Greenwich Village di fine anni ‘60. La sua astuta poesia, fatta di sottintesi, dava sempre l’idea di penetrare cose agli altri assolutamente sconosciute e di svelare, nelle liriche, qualcosa di questi misteri. L’amore nelle sue canzoni, anche quando erotico e passionale, non tagliava mai quel filo d’infinito che lo legava al Cantico dei Cantici e si mescolava costantemente con una preghiera compassionevole di fronte alle ferite umane. E la parola “misericordia” che spesso Leonard usa anche in canzone, ha nell’accezione ebraica, un significato ulteriore rispetto al latino “miseris cor dat” (“dare il cuore ai miseri”), sottolinea cioè una piena accoglienza dell’altro, comprensiva e spogliata di ogni resistenza dovuta a giudizi morali. Quanto risultano opposti gli attuali crimini in corso narrati dalle cronache, l’umanità gronda sempre dolore e lacrime, la redenzione ha sempre bisogno di sangue e sacrifici. Nulla è cambiato da quando Piero Ciampi cantava “Un concerto di chitarre arriva e suona molto amaro. Anche stasera da qualche parte c’è qualche Cristo che sale stanco e senza scampo una salita”. Le parole mature di Cohen quasi sillabate, crude e profonde, mescolate ad arpeggi mesti, minimali, spagnoleggianti, ossessivi e così poco americani, annunciarono fin da subito commiati austeri, spoliazioni di fardelli che l’uomo tende piuttosto ad
accumulare. Mistico, dolente e pessimista, teso fino all’osso verso un’inevitabile sconfitta, il cantante riparava nelle solitudini, rifiutando qualsivoglia stabilità, nei rapporti come nei sentimenti. Cohen ha rifondato il genere “canzone” come già aveva fatto in precedenza Jacques Brel, inserendovi un inedito orizzonte psichico, colto all’interno della spesso estraniante realtà quotidiana dell’uomo. Per lui, poeta, i segni pessimistici erano chiari da tempo: l’alba non avrebbe mai potuto stare dentro a un imbrunire, la speranza collettiva sarebbe precipitata su se stessa come sogno privo di risveglio. E, come quella personale, costretta a passare dall’inevitabile caduta. Ai forzati fallimenti cui ciascuno va incontro, ha sempre risposto con liriche memorabili, pregne di una poetica arcaica e senza uguali nella storia del cantautorato moderno. Nelle carne delle canzoni di Cohen il sangue è la Bibbia, che è sì un capolavoro letterario ma proprio per questo opera di uomini e donne, densissimo di trame, personaggi, tragedie, svolte narrative e contemporaneamente, raccolta di libri diversissimi tra loro. Nelle canzoni di Leonard sono finite tutte le contraddizioni degli umani che parlano delle proprie vicende, spesso in nome di Dio, ma fondamentalmente rivolti a sé stessi o ad altri come loro. Anche i Salmi, così sovente direttamente o indirettamente, citati da Cohen, non sono che voci carnali, preghiere dell’uomo-mittente nei confronti di Dio-destinatario. Le canzoni sono state per Cohen un rifugio non programmatico, una serie di occasioni di vita, come gli amori, le poesie: modi per sottrarsi un poco alla ferocia divoratrice della disfatta incombente. Attraverso di esse ha rivendicato la propria onesta e personale alterità rispetto alle ondate rassicuranti e illusorie dei movimenti di massa. L’educazione ebraica gli aveva lasciato convinzione profonda che la solitudine non fosse consolatoria ma inevitabile, tragica condizione priva di radici sociali semplicemente ìnsita nell’animo umano. Per questo hanno toccato nel profondo chiunque le abbia incontrate: per avere raccontato i segreti di ciascuno, di chi era il Signor Qualunque come di Giovanna d’Arco o di Gesù Cristo. E continueranno a farlo finché ci sarà un alito di vita su questa Terra e forse anche dopo, perché, seppur a capo chino, hanno penetrato il mistero del trascorrere del tempo. Amen.
Flavio Poltronieri
Foto di Paolo Brillo (1 e 2)
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