Le parole danzano letteralmente tra le righe, portate dalle corde di un’arpa, proprio come, oltre i vetri di Brest, danzano le piccole luci in mezzo alle quotidiane piogge furiose. D’altronde le radici non possono che essere multiple quando oltre suoni e passi, vive un’anima come quella bretone che dapprima ha perduto e poi ritrovato, le proprie antiche dignità, anche se i suoi gwerz sono sempre colmi di tragedie. In bretone, esattamente come in russo, “bardo” significa “poeta”. Le leggende nella poesia bretone si incontrano facilmente quanto le nuvole intorno alle vette, in canzone si trasformano in sepolcri profetici, troni bardici, asili di incantesimi notturni. Sono tre volte sacre agli occhi e alle orecchie di chi le ascolta. L’atmosfera soprannaturale è normale in Bretagna dove esistono luoghi che la gente venera come gli antichi Greci veneravano il Monte Delfico, da cui si levava la voce della Pizia e da cui sgorgavano le sorgenti amate dalle Muse. Anche la Terra Armoricana ha il suo Parnaso e i nuovi bardi come Manu Lann Huell, lo cantano alla perfezione. Verso la fine degli anni ‘70 aveva già musicato un paio di liriche di Hélias, in omaggio alla loro anima contadina, progettarono insieme anche uno spettacolo che purtroppo non ci fu tempo di realizzare. Manu, nativo di Juch (vicino a Douarnenez) ebbe a partecipare col cornamusista Yann Pelliet nel 1997, alla creazione dello spettacolo “Hier et demain” in occasione del cinquantesimo anniversario della “Kevrenn Brest Sant Mark” musicando i testi di “Kinig” e “Kitar-Tredan” di Pierre Jakez e adattandoli per bagad. La cosa si ripeté una decina di anni dopo sotto il titolo “Gwerz Morvan Ar Besk”. In tempi più recenti ha proposto alcuni concerti alla memoria del suo compianto amico poeta, in trio col pianista finistérien Didier Squiban e il trombettista Eric Le Lann. Una “santa alleanza” di musica tradizionale e improvvisazione capace di far swingare la lingua bretone all’interno di una ballata con la tromba, maritandola a ritmi in spirito jazz, che ne esalta aforismi, figure retoriche, proverbialità. Hélias definiva la poesia “un’erba cattiva, talvolta velenosa e mortale ma anche medicamentosa, farmaceutica, salvatrice e purgativa, che tuttavia perde buona parte delle proprie virtù se viene coltivata, in quel caso poco rimane vivo e il resto serve sovente solo a comunicare con quelli colpiti dalla medesima malattia. Se siete un eroe conserverete per voi stessi la vostra erba cattiva, se la coglierete per altri allora potrete parlare con loro di medicina, anche se non siete altro che un povero guaritore. Non cogliendola, proteggerete una malattia che è però migliore di tutta la salute del mondo...”. Parafrasando il titolo del più famoso volume di prosa di Pierre Jakez “Le Cheval d'Orgueil” (1975), Lann Huell pubblica oggi questa raccolta “Chansons d’ Orgueil”. Un lussuoso CD di tredici canzoni con un libretto di trentasei pagine in bretone-francese, con prefazione di Francis Favereau. L’arrangiamento musicale è l’ultima opera del compianto Jacques Pellen, prematuramente scomparso, causa covid, nella primavera del 2020, proprio nel corso delle registrazioni e a cui il disco è dedicato. Un numeroso gruppo di sopraffini solisti accompagna la voce di Manu in combinazioni variabili di volta in volta: Nolwenn Arzel (arpa), Sylvain Barou (binioù, duduk, uilleann-pipes), Bernard Le Dréau (sassofono), Éric Le Lann (tromba), Ludovic Mesnil (chitarra elettrica), Jacques Pellen (chitarre), Yann Pelliet (cornamusa scozzese), Patrick Péron (tastiere), Youenn Roue (bombarda), David Rusaouen (batteria), Julien Stévenin (contrabbasso), Jacquy Thomas (basso elettrico). Il disco è giunto sul mercato francese quasi in contemporanea con un appello pubblico firmato a nome di centinaia di musicisti, cantanti e animatori del Centro-Bretagna, tra cui Annie Ebrel, Erik Marchand, Marthe Vassallo, Rozenn Talec, Soïg Sibéril, preoccupati dall’impatto che una maggioranza politica nazionale di estrema destra poteva avere sull’equilibrio del loro territorio. Pericolo assennatamente scampato stavolta sul filo di lana. Il folk in generale possiede suggestioni ben note a tutti gli appassionati: in primis quello evocativo di parole e lingue sovente incomprensibili all’ascoltatore in forma letterale ma così chiare nei linguaggi dell’anima. In quel mondo interiore dove la comprensione sonora oltrepassa la mente e piccole verità locali paiono assurgere a universali. Il sentimento con il quale crebbe Hélias era chiaro: “Sono troppo povero per possedere un animale, solo il Cavallo d’Orgoglio avrà sempre una stalla nella mia scuderia, l’unica terra che possiedo si trova nelle suole dei miei zoccoli”. Nel Pays Bigouden a quei tempi, la cosa che più si temeva era “ar vez” (la vergogna), il resto era più sopportabile. “Le Cheval d'Orgueil” non insegna niente ma racconta minuziosamente come si viveva in una parrocchia bretone nell’estremità occidentale europea, durante la prima metà del ‘900. Venne per molti anni, pubblicamente e ferocemente criticato dal grande giornalista-poeta Xavier Grall. Questa ricerca di un tempo perduto resuscitava Plozévet, borgo di Pouldreuzic e i molti modi in cui si veniva giudicati grossolani e sommari dai francesi, il cui profondo disprezzo culturale è durato secoli. Jacques Prévert, che in Bretagna trascorse alcuni anni della sua infanzia, sosteneva controcorrente, che “il razzismo e l’odio non rientrano tra i peccati capitali, eppure sono i peggiori”. Un bel giorno il Cavallo d’Orgoglio scosse furiosamente la criniera, si scatenarono le rivolte contadine, il simbolico animale si scagliò contro l’ordine stabilito, dando voce alla coesione sociale e agli sguardi multipli di una civiltà in movimento. Galoppò dall’interiore verso l’esteriore, denunciando una disumanità storica e testimoniando i rapporti segreti tra un uomo e il proprio luogo. Il suo autore è un contadino che diventa etnologo della propria storia e origina nuova letteratura dal dolore di vedere il proprio universo familiare scomparire in mezzo a tanto sconvolgimento. Ad un certo punto del racconto, ai suoi occhi di bambino appare un libricino di cantici bretoni appartenente al Vescovo di Kemper, la musica era assente, sulla più parte era marcato “aria conosciuta” oppure “aria nuova” (come nei “fogli volanti” che si vendevano alle fiere). Ancora nulla conosceva il piccolo Pierre Jakez, ovviamente, del Barzaz Breiz, poco male per chi non avrebbe saputo comunque leggere lo spartito. Ora Manu Lann Huell, contribuisce a colmare un po’ questo vuoto sonoro interpretando nove canzoni (“Kan al lorh” è musicata da Éric Le Lann, “Luskellerezh evid ur bugel koz”, “Baradoz ar mor” e “Pennherez ar palud” lo sono da Didier Squiban). Utilizza parole che descrivono il momento in cui un mondo rurale si stava distruggendo dall’interno, in cui non rimaneva che il tempo di mettere al riparo la parte migliore della propria anima. Nel farlo, viene profuso da Hélias il massimo di tenerezza possibile, anche se l’espressione drammatica è alta e totale e la realtà cruda sta per piombare fuori dal linguaggio. Il genio della sua poetica profuma di malizia, saggezza e santità contadina, è ricerca di un nuovo Nome che non dimentichi gli incantesimi tradizionali, celebrando la freschezza del naturalismo di quelle che furono le primitive teogonie celtiche. I testi 1-2-13 del disco provengono dal volume poetico “Maner Kuz” (Maniero Segreto) 1964, mentre 4-5-7-8-10 da “Ar Men Du” (La Pietra Nera) 1974 e i rimanenti 6-9-11-12-14 da “Ann Tremen-Buhez” (Il Passaggio Della Vita) 1979. La chitarra ora lontana, di Jacques Pellen, apre l’iniziale “Brall” (Branle) e delle emozionanti uilleann-pipes la terminano. Canzone che celebra l’amore sconfinato per il mare di Bretagna quando dispiega la sua ampia fascia di azzurro per impadronirsi dell’anima umana “ho negli occhi tutto il mare in tumulto, delle onde gemelle mi scoppiano dentro, l’amore fragile deve vivere secondo il movimento del mare...tutta la vita negli occhi, in seno al mare, è solo magia, tremore e dolcezza amara”. Una tromba lenta guida poi “Kan Al Lorh” (Canzone D’Orgoglio), ballata jazz che attraversa i naufragi interiori serali di un uomo ferito da giuramenti di cenere“che il demonio oltrepassi la soglia e regni da padrone nel mio recinto, posso amare quello che mi porta e dai peccati prendere il mio destino, ma nel fuoco dei tempi difficili conservo un cuore puro per sempre”. L’arpa sola ricama “Rack’hoari Da…” (Prefazione A…) che introduce “Kanenn Dolly Pentraeth” (La Canzone Di Dolly Pentraeth), elegia che approda a sofferenza e morte, utilizzata dall’autore per esprimere tutto il fatalismo che lo pervade e la passività che lo soffoca nei confronti della sparizione della propria lingua. “Dolly Pentraeth, è arrivato il momento di lasciar andare ciò che amiamo, il mondo ha cambiato odore o il nostro odore ha cambiato mondo”. Per la prima volta è l’intero ensemble ad accompagnare la voce raddoppiata di Manu Lann Huell, che sembra assaporare parole che evidentemente tutta la Bretagna sente come proprie. Una poetica della terra che, in forma più colta, sembra correre parallela alle preziose pagine della poetessa-contadina Anjela Duval. Dorothy Pentreath (1692 - 1777), pescivendola, abitante di Mousehole (Topaia), vicino a Penzance, godette di una notorietà che oltrepassò i confini della Cornovaglia. Passò alla storia per essere stata l’ultima madrelingua a conoscere e saper parlare il cornico (kernewek/kernowek/cornish), uno dei rami principali dell’antico bretone, simile al breton vannetais. La sua morte fu interpretata come segno della fine di quella lingua in quanto comunitaria. Si è dovuto attendere più di un secolo prima della rinascita, oggi qualche migliaio di persone lo parla correntemente nel Regno Unito e le tre ortografie originali sono riunite in un’unica standard. Un piccolo miracolo impensabile precedentemente. L’arpa funge da base anche di “Luskellerezh Evid Ur Bugel Koz” (Ninnananna Per Un Vecchio Bambino) già musicata da Patrick Ewen nel 1992 “avevo un bicchiere di luna che brillava gialla e blu per tracciare la fortuna lungo sentieri sommersi...ho perduto l’eredità prima di servirmene, sarei stato più saggio a non diventare mai grande”. “Enez Vaz” viene apparecchiata scenograficamente dalle chitarre di Pellen e, al pari della seguente “Enez Eusa”, celebra la bellezza di queste due isole che una protettiva Bretagna “non lascerà andare”. Chi ama i tortuosi intrecci di questa terra di colline ruvide, brughiere desolate, paludi enigmatiche, sa quanta forza delirante tragga da boschi fastosi e scogliere dalla tessitura scistosa ma ugualmente dal possedere isolette che sembrano esistere fuori dalla spirale dei secoli, avvolte solo dalla sciarpa fatata delle onde. “Ar Mên Du” (La Pietra Nera) è una lirica universalista e atemporale già abbondantemente interpretata in passato: da An Triskell in "Kroaz-hent" (1976), Yann-Fanch Kemener/Didier Squiban/Kristen Noguès in Karnag (1996), Violaine Mayor/Jakeza Le Lav in "Bretagne est Poésie" (2002), Annie Ebrel/Jacques Pellen in “Logodennig (2008). Dimostrazione in versi di come la Bretagna non esista senza la sua cultura, che posa su nostalgia quanto su speranza, poiché tutti gli aldilà sono mito e non cronologia storica “Vi amerò da ieri che ne perdo il fiato oggi, dal primo giorno del mondo domani vi ho tanto amato. Tenuto là, vi amo altrove, nei luoghi sconosciuti di noi, nell’universo ancora da fare, dappertutto e da nessuna parte. Senza il vostro nome vi amavo, la vostra notte brilla nel mio cuore come un’immensa pietra nera. E fu allora che nacqui”. “Gwerz Morvan Ar Besk” (Ballata Per Morvan Lebesque) viene proposta dal gruppo nel suo insieme, come celebrazione dello scrittore nantese Morvan Lebesque, precedentemente omaggiato anche da Glenmor o Tri Yann. L’ illuminato giornalista degli anni ‘50 di “Libération” e convinto autonomista bretone, con il volume “Comment Peut-On Etre Breton?” ha influenzato generazioni intere di intellettuali. “Morvan, fratello che bruci, dove sei a quest’ora mentre porto il tuo dolore in un campo di meduse...il goémon divaga al suono di un peschereccio diretto in Irlanda, un riflesso di naufragio è passato nell’onda ma la Bretagna intera si raccomanda a te, da quando sei morto…”. “Kitar-Tredan” (Chitarra Elettrica) nel 1983 fu incisa in una ridotta versione folk-rock (in francese) da Triskell in “C’était…” mutandone anche il titolo. In questa interpretazione di Lann Huell, la chitarra elettrica si prende lo spazio che le tocca di diritto dalla denominazione “l’amore è morto lunedì mattina, in punta di respiro, in punta di pena e sopravvivi nella settimana del solo conforto del tuo dispiacere...i vecchi danzatori del venerdì ruotano, fantasmi nelle bettole, l’amore è morto nei semafori rossi...l’amore è morto dappertutto, calpestato...se trovi l’antichità in vendita da un antiquario avrai un’altra volta un po’ di tempo per venti, trenta o cinquant’anni". “Baradoz Ar Mor” (L’Isola Dei Marinai Morti) sembra descrivere un sogno lungo le coste rocciose dell’Armor, il mare che a riva appare come rassicurante, tiepido e femmineo mostra una faccia iperborea, gelida e cupa, quando al largo si nasconde tra le foschie. E’ scrigno vivente della fede e della tradizione immaginifica di un popolo per cui la vita quotidiana non è sfondo di anonime operazioni ma tessuto vivo di improvvise, vibranti e misteriose presenze “...tra mare e vento c’è la più bell’isola perduta al largo dei tempi, oltre l’ultimo miglio, nelle nebbie del tramonto, tra mare e vento, navigano a pieni remi trionfanti naufraghi diretti all’Isola delle Anime, un angelo naviga avanti, tra mare e vento, quest’isola che si rivela agli annegati dell’oceano è la loro scala eterna, dove i corpi morti li attendono, tra mare e cielo”. “Kin(N)ig” (Dedica) contiene l’armonia di un passato di zolle, animali e millenaria gratitudine umana. Il suono della cornamusa dilata la sollecitudine mostrata dalla pianura e che le viene restituita sotto forma di venerazione. Il poeta la immagina come un antenato, un patriarca, un genio familiare sempre presente e visibile, tale da possedere fisionomia mobile, animata, viva, perfino un linguaggio simbolico perfettamente accessibile alle intelligenze più umili “in onore agli antichi che un tempo faticarono per fare un altro mondo, racconto la loro vita con stima e pietà, quando il bestiame si muoveva dolcemente in silenzio e loro fischiavano incessantemente l’aria del Cavallo d’Orgoglio…”. La melodiosa “Pennherez Ar Palud” (La Ragazza Della Palude) narra del mal d’amore di Rozenn, un paesaggio interiore che possiamo immaginare dalle parole, superare in bellezza il più mirabile dei reali. La povera ragazza soffre ma vive in un proprio infinito, dove ricchezza e splendore bagnano la sua anima, assai prossimo alle immagini espresse dalla poetica di René Guy Cadou (1920 – 1951) “nel vento carico di sale sta il declino dell’estate, un’allodola ha cantato sulla soglia del paese perduto e di un amaro rimpianto senza eguali, piangeva Rozenn Kernitu. Dai suoi occhi grigio-ghiaia, un tempo ambrati e d’oro vivo, cola un deserto di gramigna come eco tenera e vana, il canto dell’uccello sei tu...”. Nella conclusiva “Glenan” (Valli) le onde cicliche dell’oceano, il temporale in avvicinamento e la sola cornamusa fanno da sfondo al canto di Lann Huell, spiritualizzando parole che finiscono per apparire sospese in un orizzonte mutevole. Quasi abbracciasse un panorama metafisico, descritto esorcizzando l’intero spazio circostante, il testo viene accompagnato da una musica di natura, simile al pibroch che precedeva un tempo l’uso delle cornamuse nelle Highland scozzesi “settecentoventi luci vive, un sole in polvere muore incoronato intorno a un certo numero di stelle, la mia luce splende nel cielo del mezzogiorno, stagni marini dalla superficie pulita, un bicchiere d'acqua calda come il sangue, una barca senza nessuno a bordo, né corpo né anima sul suo portafoglio, un pezzo di legno e nient'altro nel pomeriggio…”.
Flavio Poltronieri
Le traduzioni sono tratte da: Flavio Poltronieri “Koroll Ar C’hleze” – Danza della Spada – Raccolta di testi bretoni contemporanei – 1985)
Tags:
Europa