La “dolce erranza” tra culture musicali è una prerogativa di Kengo Saito (rubâb, composizioni e arrangiamenti), musicista nipponico animato da un grande spirito d’avventura, che ha trascorso la sua adolescenza negli States, per poi trasferirsi in Francia – dove tuttora risiede – dopo aver completato gli studi superiori assecondando la sua passione per le belle arti. Nel suo bagaglio musicale Saito porta gli insegnamenti di stimati maestri di musica classica indostana, seguiti dall’immersione nelle musiche dell’area afghana, a cui si è avvicinato apprendendo a suonare il liuto a manico corto con corde simpatetiche rubâb, uno degli strumenti nazionali del Paese centro-meridionale asiatico. Numerose e variegate sono pure le sue frequentazioni artistiche (tra cui Hangzhou e Shenzen Philharmonic, Orange Blossom, Ballaké Sissoko, Huong Thanh, Xanthoula Dakovanou e Nguyen Lê).
Nel 2016 ha inciso un album solista, “Japanistan”, una “naturale” combinazione di melodie giapponesi e afghane. Ora, il progetto primigenio si è evoluto in assetto in trio, di base a Parigi, dove le corde dello strumento elettivo di Saito incrociano il flauto shakuhachi del francese Suizan Lagrost e le percussioni dell’iraniano Ershad Therani. Il primo è docente di conservatorio, concertista e flautista, propenso a spaziare dal barocco alla musica contemporanea, dal jazz all’improvvisazione. Ha appreso a suonare il flauto nipponico di bambù a imboccatura dritta con Sōzan Kariya. Nel 2013 ha pubblicato “Kyoku”, in sodalizio con la suonatrice di koto Mieko Miyazaki. Il secondo si è formato nella musica classica persiana, suona il tamburo a calice tombak e il grande tamburo a cornice daf ed è anche diplomato in contrabbasso. Si dedica alla musica antica e barocca, rivelandosi anch’egli un concertista dalle ampie vedute musicali.
Da questa confluenza di esperienze ha origine il Japanistan Trio, il cui album non poteva che uscire per il catalogo Felmay, etichetta italiana da anni impegnata nella diffusione delle musiche del Vicino Oriente, dell’Asia centrale e del subcontinente indiano, privilegiando gli incontri interculturali. “Douce errance” presenta dodici tracce, comprendenti brani originali e arrangiamenti di tradizionali giapponesi e afghani nonché una composizione di J.S. Bach. Rubâb, flauto e percussioni danno forma a un mondo sonoro coinvolgente per gli inediti accostamenti timbrici, per la qualità degli arrangiamenti e per gli stessi materiali proposti.
Come in un’“invocazione” di un rituale shintoista, l’incipit dell’album lo dà il flauto giapponese dall’inconfondibile timbro ricco di sfumature (“Invocation” è firmato da Lagrost). La seconda traccia, “Méristème”, scritta da Saito, si ispira alla musica classica moderna del Paese del Sol Levante ed è costruita su un ciclo ritmico di sei battute seguito da una sezione improvvisativa imperniata su cicli di dieci e sei battute. Nello stesso modo melodico si sviluppa “Anar Anar”, un canto d’amore afghano. Il Sankyoku, stile classico da camera nipponico impostosi nel periodo Edo, è alla base di “Fuyu No Hikari”, mentre nela successiva “Leili Libellule Fish In The Sky” si manifestano magnificamente le procedure compositive del trio: si tratta di un medley in cui si combinano una canzone folklorica afghana, seguita da un dinamico solo di daf che guida la transizione dal modo minore al maggiore. Successivamente, il liuto esegue alcune melodie tradizionali afghane nello stile keliwali (raag Pari o Pahari in India), fino alla conclusione, in cui i tre strumenti si uniscono per riarrangiare due ninne nanne giapponesi. Di sapore al contempo gioioso e contemplativo è “Kora-Son”, tema originale composto da Saito che richiama i repertori per arpa-liuto mandingo. Elementi della natura hanno influenzato “Le Dernier Chant Des Oiseaux”, dove emergono magistrali sequenze solistiche dei tre strumentisti. Un’altra melodia tradizionale afghana, “Beshnaw Az Nay”, è arrangiata in modo da riprendere il riff del brano precedente, ma in un tempo più lento. Si tratta, in effetti, di una suite di tre brani che trova il suo compimento nel successivo “Fleuve Tranquille”, dove Saito lascia trasparire il debito nei confronti di Ryūichi Sakamoto. Segue la title track, caratterizzata da passaggi improvvisativi di grande impeto, che si impone all’attenzione per l’abilità dei musicisti di esplorare il terreno comune. “Malkauns” rimanda invece allo stile classico indostano: è suonato nella scala pentatonica del raag Makauns che è usata anche nel Sol Levante. Infine, il viaggio sonoro del Japanistan Trio approda in regioni inaspettate, riprendendo la “Polonaise” (BWV 1067) bachiana, eseguita per la prima volta in occasione di un invito al festival bachiano Passe Ton Bach d’Abord a Tolosa nel 2020. Si tratta di una sfida ambiziosa per Saito, Lagrost e Therani, che affrontano una composizione originariamente concepita sull’armonia senza tuttavia rinunciare all’approccio modale, allo sviluppo orizzontale.
Il Japanistan Trio ci consegna una fusione organica, un viaggio in questo luogo immaginario espresso con straordinaria fluidità e un viaggio fascinoso in questo luogo immaginario reso con straordinaria fluidità.
Ciro De Rosa
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