Anne Wood – When Mountains Meet (Autoprodotto, 2024)

Dietro “When Mountains Meet”, uno degli album del 2024 che meritano attenzione, non c’è banalmente un esotismo creativo di stampo world né un incrocio elaborato a tavolino da un produttore che fa incontrare artisti appartenenti a mondi musicali lontani. Al contrario, si tratta di una produzione che mette in luce il vissuto di Anne, una musicista cresciuta in Scozia negli anni Settanta, figlia di una madre. I suoi genitori si erano incontrati in Scozia durante gli anni dell’università. Il futuro padre era tornato in Pakistan prima che sua madre sapesse di essere incinta. A vent’anni, Anne ha ritrovato il padre che non aveva mai conosciuto (e che non era a conoscenza della sua esistenza). Si è recata a Karachi dove, se da un lato si è immersa nell’enorme patrimonio musicale locale, dall’altro ha dovuto affrontare i pregiudizi verso una donna musicista e una figlia considerata illegittima (“Ho anche scoperto che essere una musicista professionista e una donna illegittima mi dava poco status in Pakistan. Ero arrivata ma non sapevo chi essere. Dovevo trovare la mia strada per prosperare”). Nel curriculum di Wood si elencano studi di etnomusicologia alla Royal Academy of Music, maestria negli stili di violino classici e popolari e direzione della Highland Chamber Orchestra. Numerose le collaborazioni che ha avuto nel corso della sua carriera, tra cui The Raincoats, Massive Attack, Michael Marra, Deacon Blue, Kathryn Tickell, Sting e molti altri. “When Mountains Meet” nasce come uno spettacolo teatrale autobiografico. La colonna sonora della pièce si è trasformata in un album musicale, il cui sottotitolo è “A Musical Adventure from Scotland to Pakistan”. Dalle note di presentazione della polistrumentista (violino e sarangi) e cantante apprendiamo: “Quest’album è il culmine di molti anni di viaggi, ricerche, studi, esibizioni e introspezione per trovare una gioiosa espressione musicale della mia eredità pakistana-scozzese. Ho avuto decenni di esperienza come musicista occidentale, passando dalla musica tradizionale per violino alla classica occidentale, al punk, e come improvvisatrice e compositrice per il teatro. Negli ultimi dieci anni ho studiato la musica indostana e pakistana come cantante e suonatrice di sarangi. Questo mi ha permesso di collaborare con musicisti pakistani, che era il mio sogno. Per ‘When Mountains Meet’ ho collaborato con il sitarista e cantante di Lahore, Rakae Jamil. Gli ho inviato la musica che avevo scritto, lui ha aggiunto le sue parti e i suoi assoli e me li ha rispediti per il missaggio. Così si è sviluppata la musica. Ho coinvolto l’arpista scozzese Mary Macmaster, straordinaria cantante gaelica e scozzese, il percussionista Rick Wilson e Sodhi per le tabla e la voce. Ankna Arockiam e Niloo-Far Khan hanno arricchito l’album con le loro belle e dinamiche voci. Questo album è stato realizzato meglio di quanto avessi mai sognato. La musica brilla, la musicalità è stupefacente, ci sono momenti di profonda Scozia e di profondo Pakistan, ma anche una meravigliosa giocosità, assoli emozionanti e un’intricata tessitura d’ensemble. E poi c’è anche il groove!”. Dalle Highlands all’Himalaya e ritorno, per un lavoro che coniuga la struttura del raga indiano con le danze e le melodie scozzesi. Le tabla e le percussioni aprono “Gilgit Going”, la prima delle sedici tracce dell’album, sviluppata come un intreccio tra violino, arpa elettrica e sitar. “Pibroch Alap” combina la lenta sezione introduttiva tipica della musica classica indiana con l’introduzione di una suite appartenente alla “grande musica” delle Highlands. Le connessioni si fanno ancora più affascinanti nel reel “Karachi Scot”, in “Sitar Strathspey” — dove il violino di Wood è sostenuto dalle percussioni — e nell’incontro emozionante tra la vocalità gaelica del puirt à beul e le sequenze ritmiche del tala in “Eddrachillis Horo”. Più avanti, “Who Am I Here” è una canzone minimale in cui Wood riflette sulla sua esperienza in Pakistan. Dalla percussiva “Frustration” si passa allo spoken word di “Schist”, in cui la voce enumera i tipi di roccia che hanno formato le vette della Scozia e del Pakistan. Se sarangi e arpa dominano nella magnifica “Anarkali”, è di nuovo la sillabazione ritmica vocale a prevalere in “I’m Hire”; le voci tornano protagoniste anche nel crescendo corale di “K2”. Risplendono le corde risonanti in “Lahore”, uno dei temi di punta dell’album, che prosegue con l’ipnotica “Wagah Crossing”, dove la voce si adagia sui bordoni. Un senso di profonda riflessione emerge anche nel magnifico “Lucknow”, basato sul raga “Yaman”. Arpa e violino ci riconducono a casa con “Home” e, da lì, di nuovo nelle Terre Alte di Scozia, simboleggiate dal canto gaelico “Ó Mo Dhùthaich”, gran bel commiato per questa appassionante celebrazione di un’identità ibrida contemporanea. 


Ciro De Rosa

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