Aboubakar Traoré, cantante e virtuoso burkinabè del kamélé n’goni, presenta il suo secondo album, pubblicato dall’etichetta belga di Ghent Zephyrus Music, che segue l’apprezzato debutto “Tama Tama” (2019). Con il maestro dell’“Arpa dei giovani”, originario di Bobo-Dioulasso, la seconda città più grande del Burkina Faso e crocevia culturale del Paese dell’Africa occidentale, suona la banda transnazionale Balima, combo di tutto rispetto che comprende Geoffrey Desmet (balafon, djembe e cori) e Guillaume Codutti (percussioni e cori) dei Sysmo, Désiré Somé (chitarra e cori), già con Bai Kamara Jr.’s Voodoo Sniffers, e Zonata Dembélé (basso e cori), che ha suonato con Rokia Traoré.
Aboubakar Traoré non discende da una genia di griot, ma ha appreso da autodidatta il kamélé n’goni, strumento sviluppato nel secondo Novecento. È un artista creativo che ha viaggiato molto in Europa, condividendo le sue conoscenze attraverso concerti e workshop in cui offre corsi di kamélé n’goni e di canto.
Costruito su otto composizioni (30 minuti la durata totale) originali dello stesso Aboubakar, ma arrangiato collettivamente dalla band, “Sababu” è una riuscita fusione di stilemi della tradizione musicale di provenienza con influenze jazz, rock e reggae, gustose melodie sostenute da poliritmie coinvolgenti e solismi che conquistano.
“Sonfo” apre con un incedere incalzante; Traoré invita a non esagerare con le critiche negative: “Nessuno è privo di difetti, ma ognuno di noi, con la propria unicità, contribuisce ad arricchire il mondo e la sua diversità”. In “Gnani”, si parla dello sfruttamento delle materie prime e delle risorse dell’Africa da parte del Nord globale. Come riequilibrare questa disparità, si chiede Aboubakar? Occorre riprendersi la sovranità lavorando a prevenire l’emorragia di giovani che lasciano i loro Paesi seguendo le pericolose rotte migratorie. Sono il balafon e le voci antifonali a condurre il brano che con i suoi cambi di ritmo e i passaggi solisti di chitarra e kamélé n’goni è uno dei brani più coinvolgenti del disco.
Istanze politiche al centro anche della successiva “Politiki”, che si sviluppa con il dialogo tra chitarra elettrica e arpa, un sostegno ritmico di tutto rispetto e le voci che si interrogano su “come possiamo credere in un sistema che perpetua la dominazione e rifiuta ogni prospettiva di autonomia? Come si può osare manifestare senza temere gravi ritorsioni?” Si apre al tema dell’amore la successiva “Djarabi”, laddove la title track si impone per potenza ritmica e per gli incisivi soli di chitarra, mentre le voci call&response cantano riflettendo sulla fragilità e la vastità della vita. Una vita che produce infinite opportunità, sia positive che negative. Il messaggio è afferrare quelle buone e respingere quelle cattive per costruire una vita felice. Non manca l’elogio degli antenati, che arriva puntuale nelle accattivanti inflessioni in levare di “Turamagan”, in cui si loda il guerriero Mandingo ricordando l’antico impero dell’Africa occidentale (dal XIII al XVI secolo); la voce dell’ospite Mariam Dioubate è il valore aggiunto del pezzo. Segue lo strumentale “Djuru Kan” in cui Traoré dà prova della sua pregevolezza tecnica nel pizzicare le corde del suo tintinnante strumento elettivo. Infine, la danzante “Tulon” marcia a pieno ritmo, sottolineando la centralità del fare festa per diffondere gioia e favorire la fratellanza degli Africani a casa come nella diaspora. Degno e ottimistico commiato per un album nel quale non troveremo ardite sperimentazioni, ma che ci mette di fronte a musicista di indiscussa qualità che, coadiuvato da una band robusta, accende emozioni.
Ciro De Rosa
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