Louis Brehony, Palestinian Music in Exile: Voices of Resistance, 2023, American University in Cairo Press, pp. 340 pages, $ 59,95

Questo volume, pubblicato nella collana dell’American University in Cairo Press che esplora ricerche sui migranti e i richiedenti asilo nel Medio Oriente e Nord Africa (MONA), si presenta come un contributo fondamentale allo studio della musica palestinese. Louis Brehony, studioso delle musiche palestinesi nonché attivista, musicista (suona buzuq e chitarra), ricercatore ed educatore, offre una prospettiva di prima mano, frutto di oltre un decennio di ricerca sul campo. Nel 2021, Brehony ha realizzato anche il documentario “Kofia: A Revolution Through Music”, dedicato all’omonima band svedese-palestinese. Come detto, “Palestinian Music in Exile” si fonda sull’osservazione partecipante, sul dialogo con i musicisti e sull’impegno politico dell’autore con movimenti anti-imperialisti, proponendo una storia della pratica musicale nella Palestina storica e in quella dell’esilio. Nella lunga introduzione, che occupa le prime cinquanta pagine del lavoro, intitolata “Strings of the Street: Resistance Aesthetics of a Nation in Movement”, Brehony avanza l’idea che lo studio della musica palestinese rappresenti un atto intrinseco di attivismo politico in uno scenario politico-sociale e culturale segnati da rapporti coloniali. Sul piano concettuale, l’autore fa riferimento alla matrice di pensiero che fa capo a personalità palestinesi come il romanziere Ghassan Kanafani, l’artista Naji al-‘Ali e l’attivista politica Leila Khaled. Lo studio focalizza diversi “lahajat musiqiya” (dialetti musicali) che i palestinesi in esilio hanno sviluppato dal 1967 al 2021, individuati come strumenti di espressione della collettività palestinese. Grazie a un’approfondita indagine di casi studio e interviste con artisti indipendenti – per la maggior parte privi di contratti discografici, salvo qualche eccezione – Brehony dà voce alle esperienze di musicisti che hanno assunto il ruolo di combattenti culturali per la causa palestinese. Ogni capitolo del libro si apre con un “mawqif”, termine che può essere tradotto come episodio, aneddoto o momento di sosta, simile a un rifugio per il viaggiatore. Questi “mawqif” spesso rispecchiano le vicende umane e politiche dei musicisti, rivelando il dialogo tra i luoghi della loro infanzia e quelli della vita adulta, talvolta segnati da un’ulteriore distanza dalla Palestina, come nel caso di chi appartiene alla “diaspora” europea. Questi interludi narrativi spaziano tra resoconti di performance, storie personali e scene tratte dal lavoro etnografico. Il concetto di “sumud” (fermezza), che permea sia la musica sia la vita palestinese, emerge come il filo rosso che attraversa il lavoro, mettendo l’accento sul fatto che la musica palestinese non è unicamente un’espressione della collettività rivoluzionaria, ma anche uno strumento di resistenza e critica sociale. Naturalmente, la tradizione musicale orale e gli strumenti utilizzati occupano un ruolo centrale nello studio. Oltre all’oud, che detiene una posizione preminente nel panorama musicale, l’autore si sofferma anche sul flauto ney, sui fiati popolari, sulla chitarra elettrica e persino sulla cornamusa scozzese – lascito della presenza di bande musicali militari durante il mandato britannico – contestualizzandoli all’interno delle diverse realtà della “ghurba”, concetto centrale nelle descrizioni degli intervistati, e preferito dall’autore a termini come “diaspora” o “migrazione”, per i quali si tratta di una sensazione di esilio che incarna sia la sofferenza per la separazione dalla propria terra sia la condizione di oppressione per chi continua a vivere in Palestina sotto un sistema coloniale. Lo studio è articolato in sette capitoli che, organizzati cronologicamente, combinano narrazione e analisi musicale attraverso l’analisi di testi, composizioni musicali, strumenti e performance. Tema principale del primo capitolo è la musica nell’esilio, con al centro la figura della cantante Reem Kelani, nata in Gran Bretagna da genitori sfollati dalla Cisgiordania, cresciuta in Kuwait dopo il 1967. Fin da giovane ha iniziato a cantare, influenzata da diversi generi musicali: jazz, pop occidentale e musica tradizionale palestinese. L’autore si sofferma sul ruolo centrale delle donne nel preservare ma pure trasformare la cultura palestinese; evidenzia, inoltre, come stilemi della musica occidentale siano mutuati e rielaborati, diventando strumenti di lotta anti-imperialista nei contesti di esilio e marginalizzazione. Il secondo capitolo si concentra sulla musica palestinese in Giordania, Siria e Libano, analizzando le esperienze di musicisti come l’oudista Ahmad Al Khatib, il chitarrista Tareq Salhia e i suonatori di cornamusa Ziad Hbouss Ali, Mustapha Dakhloul e Bahaa Joumaa. Il primo è cresciuto in un campo profughi in Giordania. Dedicatosi all’oud fin da ragazzo, ha deciso, da adulto, di tornare in Palestina, proponendo il suo stile influenzato dalla tradizione irachena in un ambiente aduso a prassi più vicine alla tradizione egiziana. Questi racconti mostrano come le esperienze dei rifugiati palestinesi abbiano contribuito allo sviluppo collettivo di nuovi “dialetti musicali”. Il terzo capitolo approfondisce il ruolo femminile attraverso la figura di Umm Ali, cantante non professionista cresciuta a Gaza durante la Prima Intifada (1987–1993). Brehony sostiene che, oltre alla partecipazione di massa delle donne all’Intifada, la musica del “sumud” e della resistenza abbia aperto uno spazio sociale per il coinvolgimento delle giovani ragazze, ponendo le basi per una nuova generazione di musiciste. Nel quarto capitolo, si analizzano la figura di Tamer Abu Ghazaleh – cantante, oudista e compositore di residenza cairota – e le relazioni tra la musica palestinese e i movimenti sociali e politici in Egitto e Palestina a partire dai primi anni del nuovo millennio. Il quinto capitolo focalizza di nuovo sulla musica strumentale, concentrandosi sull’oudista Saied Silbak, nativo della Bassa Galilea, e sulle esperienze dei palestinesi sfollati nel 1948 come risposta alla condizione di “alterità interna”. Nel passare al sesto capitolo, incentrato sulla nuova generazione di musicisti di Gaza all’interno della cornice politica successiva ai cosiddetti accordi di Oslo, lo studioso rivolge l’attenzione ai vissuti musicali e sociali dell’oudista Reem Anbar, della cantante Rawan Okasha e del polistrumentista Said Fadel (della Sol Band, che ha dovuto lasciare Gaza dopo la recente invasione israeliana post ottobre 2023). Il capitolo successivo, esplora la scena musicale migrante palestinese a Istanbul e gli aspetti di solidarietà politica, attraverso i percorsi musicali e politici di due musicisti gazawi rifugiati: Fares Anbar (percussioni) e Ahmed Haddad (voce e chitarra), e della loro esperienza con altri rifugiati. Una comune visione li ha portati a unire le loro voci nel reinterpretare “Raj’inyahawa”, canzone della diva libanese Fairouz, simbolo di un impegno che non è solo pratica musicale ma anche lotta sociale e politica. Nel capitolo conclusivo, Brehony tira le somme delle argomentazioni significative, mettendo l’accento sugli aspetti di solidarietà come base per l’azione collettiva da parte degli oppressi, finalizzata ad affrontare le sfide politiche, economiche e sociali globali. Concludendo, “Palestinian Music in Exile: Voices of Resistance” si presenta come una monografia coinvolgente, militante e vivida ma anche rigorosa nel suo sviluppo teoretico e analitico. Rappresenta un contributo fondamentale per lo studio della musica palestinese e della creatività dei musicisti in esilio come espressione di resistenza anticoloniale, ed è destinato a interessare musicologi, storici, scienziati sociali e studiosi di post-colonialismo, genere e diritti umani. In questo video l’autore discute del suo volume in un incontro pubblico. 


Ciro De Rosa

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