L’epopea di Makám Együttes: storia di una longevità musicale – IV Parte

“Ezeregyéjszaka” (2017) nasce dopo che Zoltán aprendo un cassetto di quaderni musicali, ritrova abbozzi melodici, haiku e frammenti di testi che evocano sogni, misteri, paure, meraviglie che lo riportano alle notti infantili avvolte dal velo dell’Oriente. Al mondo delle “Mille E Una Notte”, alle poesie dell’ottocentesco Sándor Petőfi, morto in battaglia a Segesvàr (l'attuale Sighisoara rumena) a soli ventisei anni e il cui corpo, come quello di Federico Garcia Lorca, misteriosamente non verrà mai ritrovato. Il romantico poeta che scriveva dell’amore familiare e della Grande Pianura ungherese dell'Alföld che gli diede i natali, tra Danubio e Carpazi nel bacino pannonico, che lui chiamava “deserto”. L’eroe nazionale che si cambiò il cognome slavo Petrovics in quello magiaro Petőfi (Figlio di Pietro) e sapeva scrivere della natura come sovente si fa nelle filastrocche della tradizione: “Sarò albero se tu sarai fiore. Se tu sarai rugiada io fiore sarò. Sarò rugiada se tu sarai raggio di sole...se, fanciulla, tu sarai paradiso allora io diventerò stella, se tu sarai inferno io sarò dannato”. Tre delle sue liriche vengono musicate in questo disco di notti arabe: A Csillagok Lehullanak (Le Stelle Cadranno), Mi Messze (Noi Siamo Lontani) e Petőfi Blues, La prima prende titolo da un passo biblico del Vangelo di Marco (capitolo 13, verso 25) “Nei giorni in cui finiranno i tormenti, il sole si oscurerà, la luna non darà più luce, le stelle cadranno dal cielo e le forze che tengono insieme tutte le cose saranno scosse...” “Alkonyat” invece era uno strumentale che già compariva accennato nel secondo disco assieme a Kolinda (1984) così come nel recente concerto budapestino celebrativo. Qui viene ulteriormente impreziosito da un testo di Krulik. Il disco inizia in maniera cullante e mantiene un’atmosfera serena lungo l’intera sua durata per terminare con Mikor Csikból, riproposta della canzone di un vagabondo, brano anch’esso precedentemente inciso (in “Almanach” sotto il titolo “Vándorének”): “Quando ho lasciato Csík mi coprivano le stelle, ho domato il fulmine e ne ho fatto una frusta. Il sole sulla mia fronte luminosa, la curva della luna sopra il mio cappello. Non ho asino, il mio pane è finito, la stella di Göncöl è il mio carro. Le mie campanine sono tutte tese, le vesti appuntate a un ramo, i gong allineati, ho suonato il tamburo nella rabbia. Il mio mantello è fatto della polvere della strada, il cappello di dolore e paura, i bottoni sono le mie lacrime, cuciti dalla sofferenza degli anni. Un emarginato ha un dolore eterno, senza carro né asino, la sua patria è il mondo intero,
l’amarezza è la sua ragazza. Migranti, viaggiatori, le vostre anime sono nuvole colorate, ancoratele fin che siete in tempo, ai cancelli di terra e cielo!” In quello stesso anno Zoltán dà alle stampe anche il flusso di testo del secondo libro di ispirazione autobiografico-infantile “Az Utolsó Papírrepülő” (L’Ultimo Aeroplano Di Carta). Il volume dimostra come l’autore sia totalmente un musicista, la sua scrittura si compone infatti delle ripetizioni e ripartenze tipiche di una canzone, cambiamenti di tempo e di spazio che rimandano continuamente a modulazioni sonore. Le parole seguono decelerazioni e accelerazioni, pause, movimenti, transizioni nel discorsivo simili a glissandi musicali. Il ritmo del libro prevale addirittura sull'ordine cronologico degli avvenimenti, il testo, attraverso le voci degli antenati, svela ricordi di un periodo che dal dopoguerra si protrae fino al sorgere degli anni ‘70. Il linguaggio onirico descrive la sfrenata fantasia di un bambino, le letture e le tradizioni familiari che si imprimono inevitabilmente nella coscienza durante i primi anni di vita. Si trattava di un’epoca (gli anni ‘50 del secolo scorso) densa di paure e impossibilità, il mondo appariva grigio, stanco, appesantito da sensazioni contrastanti in Ungheria. Ancor più a Tatananya, città industriale costruita a ritmo sfrenato, dove vivevano svevi e slovacchi e ogni giorno arrivavano nuovi lavoratori che, uno dopo l’altro, venivano annessi ai villaggi circostanti di Fertálya, Bánhida o Felsőgalla, dov’era nato lui. Piccoli luoghi dove la vita che si era sempre svolta con semplicità e con altri ritmi, finiva sconvolta. In seguito, l’azione si sposterà al Bencés Gimnázium di Pannonhalma per le scuole superiori presso dignitosi monaci, custodi di grandi sofferenze passate. I bisnonni di Zoltán erano ebrei, i nonni paterni discendono da ceppi polacchi e sassoni, gli antenati ungheresi da parte di madre appartenevano al ramo transilvanico. Krulik-bambino racconta che uno di loro, combattente della Prima guerra mondiale, portava ancora una pallottola conficcata in un braccio. Avrebbero dovuto emigrare in America ma scelsero di vivere in Ungheria. Gli raccontavano di come molti dei suoi antenati da piccoli suonavano il violino, uno dei nonni si dilettava ancora con il clarinetto, la sorella al pianoforte. In famiglia si intonavano canzoni popolari mentre in chiesa si cantava tutti insieme ad alta voce, in mistico latino. Makám ritorna discograficamente nel 2019 con “Budapest Ejszakája Szól”, nuovo live che sfiora dolcemente differenti gamme sonore, dai suoni popolari alla musica contemporanea. La nuova voce femminile è quella di Bori Magyar che spazia dal blues all'eterea sottigliezza della preghiera, il suono del violino è nelle mani di Barbara Kuczera che giunge a ripetitività gioioso/amara, mentre le abbaglianti improvvisazioni jazzistiche si devono al sassofono soprano di János Vázsonyi. Il cd si presenta senza applausi poiché le canzoni sono state estrapolate dalla registrazione del concerto del maggio precedente all'Open Workshop. Il testo dal sapore
apocalittico di Budapest Éjszakája Szól ricorda quello di Closing Time di Leonard Cohen (The Future, 1992), in entrambe i sogni paiono spazzati via dalla dissolutezza e da un senso di inadeguatezza e estraneità. “Porto il grande sogno di Budapest di notte, tu sei una città divertente, io sono una città divertente, le mie due mani stanche si sentono insensibili, arrivo con zingari, vino e donne...io sono l'ubriaco e intricato Est. Ho una città: la povera Budapest, altrove il mio vino e la mia birra sono amari, qui dolce gioia si riversa nella mia bocca e Budapest esulta, canta, paga, anche a Bisanzio cresceva il muschio dell'oblio...qui siamo tutti re ogni notte, domani crolleremo o moriremo, ecco un ultimo consiglio per chiunque, qui sono accecati dalla fiamma del cimitero, qui tutti già piangono qualcuno...è come se il divertimento fosse la Morte. Il teatro, il caffè, gli zingari, il vino, la musica, i baci, gli svenimenti, la febbre...ciò di cui ci pentiamo oggi, lo si farà domani...addio Budapest, corri, raccogli il pegno della notte futura, verrò di nuovo domani, arriverò.” L’acustico progetto è rivolto a musicare una serie di liriche del simbolista Ady Endre (1872-1919) in occasione del centenario della scomparsa, Zoltán dichiara: “Quello che Ady scrisse 100 anni fa rimbomba, scivola, si insinua e si contorce anche oggi, in una delle sue poesie estreme, l'eroe cavalca su una bara, come se stessimo guardando un video attuale di Marilyn Manson”. Animatore di un movimento che ruotava attorno alla rivista Nyugat (Occidente), il poeta con la sua opera, provò a capovolgere il suo piccolo mondo magiaro, promulgando l’apertura della cultura ungherese a quella europea. Aveva constatato a Parigi, l'arretratezza del suo Paese e nutriva un amore profondo per la poetica di Paul Verlaine e Charles Baudelaire “Come un sasso tirato in alto, piccola Patria mia, da te torna sempre tuo figlio, visita terre lontane, si abbaglia, si deprime e cade nella polvere...sono sempre tuo nella mia rabbia, nell'infedeltà, nell'amorevole pensiero, sempre magiaro. Come un sasso tirato in alto, voglio o non voglio, mio piccolo Paese, a te somiglio, nonostante ogni desiderio, se tu mi tirassi cento volte, cento volte da te tornerei” (A Föl-Földobott Kő). Credente, politicizzato, combatté contro tutto, morte compresa, alcune delle sue poesie furono musicate ancora quand’era in vita, Béla Reinitz ne trascrisse per pianoforte e lo stesso fece Hugó Beretvás. Nel disco, l’apice in canzone
della fusione delle parole di Ady con il patrimonio musicale popolare ungherese, raggiunge la perfezione nella lirica d’amore posta al numero otto, grazie al canto di Krulik e ai luminosi percorsi tracciati dalla lezione di Bartók “Stringo con la mia mano che invecchia, la tua mano e proteggo i tuoi occhi con questi occhi che invecchiano...sono arrivato da te attraverso rovine di mondi e attendo, insieme a te, atterrito...non so perché e fino a quando resterò qui con te…” (Őrizem A Szemed). Tutta una nuova e giovane generazione ungherese di fine secolo si aggregò intorno alle idee del poeta che riguardavano motivi sociali, religiosi, erotico-sentimentali “perché statue e quadri cercano di rubarti dalla mia anima? Che siano vivi o freddi, chi può sostituire il tuo calore unico? Muoio in ogni mio bacio e rinasco sulle tue labbra...” (A Te Melegséged). 


Flavio Poltronieri

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