Dalla California, dove risiede da qualche anno, sono arrivati nel 2024 due album della cantante e polistrumentista Ganavya Doraiswamy, nata a New York e cresciuta nell'India meridionale. Il nome Ganavya le venne dato dalla madre perché significa in sanscrito “la bambina dalla voce celestiale”, un destino letto in una mappa stellare durante la gravidanza. Da bambina, dalla madre ha imparato la musica carnatica e dalle nonne l’arte della, spesso seguendone i passi lungo i sentieri dei pellegrinaggi dell'India meridionale. “Aikyam: Onnu” (2018), il suo primo album fa incontrare gli standard jazz con la sua lingua madre, il tamil. Dopo collaborazioni con Esperanza Spalding e il collettivo Sault, il seguito, “Like the Sky I've Been Too Quiet”
è arrivato in primavera, a distanza di sei anni, prodotto da Samuel Shepherd (Floating Points) per Native Rebel, l’'etichetta di Shabaka Hutchings, con contributi dello stesso Shabaka ai fiati, del polistrumentista di Los Angeles Carlos Niño, di Floating Points e Leafcutter John ai sintetizzatori. Un album dai toni intimi e introspettivi, in tensione fra meditazione ed esplorazioni di sentimenti melanconici; gli interventi ai flauti di Kofi Flexxx (“El Kebda, Let it Go”), così come l'arpa di Alina Bzhezhinska (“Forgive Me My”) sanno evidenziare anche le parti più luminose del suo canto che splende soprattutto quando il contesto musicale si fa rarefatto (come si può ascoltare nel recente concerto col pianista, Chris Pattishall ) e in presenza di registrazioni ambientali, quelle che attraversano il brano più esteso, “[Sister said] Home is a direction”.
Per lo splendido e toccante album appena pubblicato e da lei stessa prodotto, “Daughter of a Temple”,
Ganavya ha invitato oltre trenta artisti di varie discipline a un incontro rituale a Houston, coinvolgendo fra gli altri Esperanza Spalding, Vijay Iyer, Shabaka Hutchings, Immanuel Wilkins e Wadada Leo Smith. Lo spirito di quest’incontro musicale l’ha riassunto così, raccontando di quando i suoi genitori erano alle prese con l’acquisto di una vecchia casa per farne un ashram: “La parola ashram, nella sua forma più semplice, significa santuario e ogni ashram è collegato a un tempio. Un tempio può essere diverse cose: ‘uḷḷuṟai’, che in tamil indica il paesaggio interiore; o un tempio nel nostro cuore; o la costruzione di un tempio vero e proprio; o un tavolo da cucina che accoglie chiunque abbia bisogno di cibo. Ricordo che dissi a mio padre e mia madre: ‘Sapete che non è un'impresa da poco, come avete potuto scegliere questo?’ E loro risposero con molta dolcezza: ‘Che cos'è la vita se non costruire templi?’ Per loro non è l’edificio a costituire il tempio, ma il tempio è lo sforzo stesso di essere ciò che stiamo costruendo. Io sono la loro figlia”.
Accanto a temi di sua composizione e a brani della tradizione indù come “Prema Muditha” e “Om Namah Shivaya”, che traggono nuova linfa dalla sua ampia paletta vocale e espressiva, la cantante propone la rivisitazione della suite incisa nel 1964 dal quartetto di John Coltrane, coinvolgendo il regista teatrale Peter Sellars nella recitazione dei versi della seconda delle quattro parti e disegnando una versione che mette in evidenza l’interplay fra coro, voce solista e fiati nel terzo movimento, dedicato ad Alice Coltrane, con l’ipnotico inno “A Love Supreme”, lasciando poi alla lingua tamil i versi di chiusura.
Alessio Surian