La ristampa in CD di “Louis Moholo's Viva La Black”, uscito in origine per la Ogun nel 1988, offre l’occasione di ripercorrere sinteticamente la storia di quei musicisti esuli sudafricani.
Nonostante non sia caratteristico come la mbira per lo Zimbabwe o la kora del Mali, per le comunità del Sudafrica il sassofono è diventato lo strumento per eccellenza che riflette la storia musicale del Paese. Pur provenendo da Harlem, nelle mani dei musicisti sudafricani ha preso altro respiro, si è riempito dei sogni e delle laceranti sofferenze di quelle genti fino a diventare completamente “africano”. Ha iniziato questo viaggio circa cento anni fa nei club underground di Johannesburg quando i musicisti locali delle bidonvilles cominciarono a adattare i brani ragtime americani, incorporandovi basi di canti africani tradizionali. La tradizione era assolutamente rispettata e il ciclico marabi orale, ballabile e sincopato, trasportato sui nuovi strumenti a fiato, veniva suonato a orecchio, senza nessun bisogno di scrivere spartiti. Si trattava di una musica, al pari del jazz statunitense, in origine associata alle classi sociali più miserabili, alla povertà, all’illegalità, alla malavita. Così dal marabi nacque il township jazz che col tempo recherà limpida l’impronta del bop di Charlie Parker e del free di John Coltrane e Ornette Coleman. Dal kwela di strada, che dagli anni ‘40 era prevalentemente ballato su economici e talvolta artigianali, pennywhistle metallici, sono emersi nei decenni successivi, una serie impressionante di strumentisti sudafricani di jazz contemporaneo, tra cui Kippie Moeketsi, Basil Coetzee, Barney Rachabane, Christopher Ngukana, Ronnie Beer, Sean Bergin, Claude Deppa, Thebe Lipere...e poi Chris McGregor, Harry Miller, Louis Tebugo Moholo, Mtutzel “Dudu” Pukwana, Mongezi “Mongs” Feza, Nickele Moyake, Johnny “Mbizo” Dyani, ovvero i Blue Notes. Un’orchestra scandalosamente multirazziale nel paese dalla più spietata segregazione, in bilico tra bebop, townships jive e free, con musicisti neri e un caporchestra bianco dall’aspetto da saggio hippie, con tanto di barba lunga e capelli sulle spalle raccolti in coda. Poteva al massimo esibirsi nei ghetti tra ostracismi, imposizioni e barriere, al di fuori potevano farlo insieme solamente se i non-bianchi stavano nascosti dietro umilianti tende. Così per molti anni il jazz sudafricano non potrà definirsi silente quanto piuttosto costretto al silenzio, alla fine degli anni ‘60 la polizia cancellava il più possibile la cultura nera tenendola rigidamente fuori dalle città “bianche” che dettavano poteri politici e culturali.
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