Ghettizzata a Soweto, sterminato agglomerato di township alla periferia di Johannesburg, priva di servizi, lavoro, istruzione, poteva accedere alle aree urbane solamente chi era munito di lasciapassare, venivano impediti per legge i matrimoni misti, nessuna possibilità di associazione. Imposizioni che si inasprivano sempre più, allargandosi a etnie meticce o indiane e separando di fatto europei e non. Nel 1972 una sola casa di produzione era nera a Johannesburg, la “Phiri” e l’intera comunità musicale della città fu costretta a spostarsi a Cape Town. Il mistico pianista Dollar Brand (poi Abdullah Ibrahim) lasciò il suo pioneristico gruppo di bebop-africano Jazz Epistles, che aveva creato nel 1959 (comprendente anche il trombettista Hugh Ramopolo Masekela), per fermarsi in Svizzera incantando il nuovo pubblico europeo con il proprio affascinante stile. Duke Ellington lo aiutò all’inizio, deliziato dall’ascolto di quel miscuglio sofisticato e riflessivo di ritmi indigeni africani, folk tunes, gospel e inni religiosi abilmente fusi a jazz e classica. A tutt’oggi è in attività, alla veneranda età di novanta anni compiuti pochi giorni fa, non ha mai dimenticato il bambino che fu. L’orfano di padre dei sobborghi di Kensington che risparmiava ogni spicciolo per scambiarlo con i dischi di jazz statunitense dei marinai neri incontrati sulle banchine del porto (al punto da essere soprannominato “Dollar”). Per poi riprodurli da autodidatta sul pianoforte, che poteva permettersi unicamente grazie a mamma e nonna, pianiste presso la locale Chiesa Episcopale Metodista Americana. Non fu che il primo di una lunga schiera di musicisti costretti a emigrazione forzata, autoesuli per circostanze storiche che nel loro paese decretavano l’ergastolo per Nelson Mandela, il fuoco contro le rivolte nere di Sharpeville, l’interdizione al Congresso Nazionale Africano e a quello Panafricano. Un lugubre mezzo secolo di separazione delle razze nel quale questi coraggiosi hanno vitalizzato con il loro talento, la creatività delle realtà musicali nord-europee, diffondendo kwela (che significa “salire” e viene associato all’obbligo di entrare nei furgoni polizieschi durante le frequenti retate) e mbaqanga (che in lingua zulu vuol dire all’incirca “pane musicale quotidiano”). In Sudafrica le violenze dei razzisti bianchi nei confronti dei centri sociali e le criminali politiche governative di ri-tribalizzazione dureranno per decenni. Il jazz veniva definito come “stimolatore sessuale”, la censura giunse perfino a bandire l’ascolto di “Crepuscule With Nellie” (composta da Thelonious Monk per l’amata moglie) in quanto volle intendere nella parola “crepuscolo” una qualche allusione sessuale. I massacri di Sharpeville
o della township di Langa rappresentarono solo alcuni dei punti di non ritorno e in quelle condizioni non risulta difficile capire perché alle prime occasioni di suonare nei festival europei, molti dolorosamente preferirono non tornare nel loro Paese .“La musica era ovunque…il jazz era al centro di tutto…c’era la straordinaria volontà di costruire qualcosa che non venisse sopraffatto e dominato dalle leggi razziali…” (Chris McGregor). Grazie ai Blue Notes e poi alla Brotherhood Of Breath, il free-jazz diverrà simultaneamente folklorico e contemporaneo, contemplativo e gioioso, meditativo e danzante, spirituale e furioso. Retto da scansioni di formule melodiche insistenti e lunghi assoli sostenuti da ritmi lancinanti fino all’incantamento collettivo. La musica di questi gruppi tempestosi e angosciati ha pulsato di mal d’Africa nel cuore d’Europa, lanciando urla di fiera energia dalla savana alle vie del centro di Londra, abbattendo le distanze tra Port Elisabeth e Soho. Gli anni ‘70 furono anche quelli del Black Power negli Stati Uniti, del crescente successo dei movimenti di liberazione in Africa e delle parole, soffocate nel sangue, di Steve Bantu Biko, leader del Black Consciousness. La Svezia, dove viveva Johnny “Mbizo” Dyani, alla fine degli anni ‘60 decise di offrire assistenza umanitaria ai movimenti di liberazione nazionale dell’Africa meridionale, intrattenendo relazioni sia a livello ufficiale che non-governativo. Mbizo quando suonava in solitaria, era un jazzista che non di rado impugnava il contrabbasso come una chitarra per accompagnarsi in canti kwela provenienti dalle tribù d’origine Xhosa. Lo affascinava la rielaborazione di antiche arie cantate, ninnananne, preghiere, al pari di Dollar Brand o Don Cherry, con i quali scriverà commoventi pagine musicali di profonda e indimenticabile intensità. Alcune delle sue composizioni furono dedicate ai conterranei pianisti Tete Mbambisa, Gideon Nxumalo, Pat Matshikiza, Shakes Mgudlwa, al sassofonista tenore Peter “Shimi” Radise, al poeta Willie Kgotsisile. Il
canto di Dyani (la sua discografia dettagliata, collaborazioni e composizioni, a mia cura, sono consultabili nelle sezioni relative all’interno del sito tedesco “Kultur In Ghetto – Jazz gegen Apartheid”) in una sorta di marcia immaginaria pacifista e gioiosa, tornava sempre all’origine, a quelle infantili strade polverose e chiassose, piene di biciclette, polli, cavalli, mucche, tamburi, flautini di legno, bambini. A Londra nel 1975, Harry Miller e la moglie Hazel riusciranno a creare la casa discografica Ogun (Dio nigeriano di lavoro e fuoco) anche per dare opportunità agli esuli di incidere liberamente i propri suoni. La mitica etichetta indipendente, per molti una seconda famiglia, è a tutt’oggi esistente, ogni storico suo disco riluce, gemma preziosa, vibrante di emozioni, respiri, genialità. Purtroppo, Miller nel 1983 perirà a causa di un incidente stradale in Olanda a soli 42 anni. La musica fiammeggiante della comunità nera esiliata ha offerto grande impulso e insegnamento a tanti musicisti in Europa. Infine, in Sudafrica, la vergogna dell’apartheid è stata spazzata via, nel 1990 Mandela liberato dopo ben ventisette anni di prigionia silenziosa passerà alla storia come simbolo internazionale di resistenza, per cinque anni sarà Presidente grazie alle prime elezioni multietniche della storia sudafricana. Il martirio di Biko diverrà un altro simbolo mondiale contro il razzismo, anche se le disparità sociali sono piaghe raramente del tutto superabili. A fronte delle lotte vincenti, un sadico e spietato destino colpì i musicisti Blue Notes: Moyake, unico a non adattarsi al cambio di clima inglese e tornare in Sudafrica, era prematuramente deceduto per emorragia celebrale nel 1965 (a 33 anni). Esattamente dieci anni dopo Feza morirà a Londra di abbandono e di una polmonite che sarebbe stata facilmente curabile (a 35 anni), Dyani venne portato via nel 1986 da un infarto improvviso (a 41 anni) a Berlino, lontano da Copenhagen dove si era trasferito con la famiglia, McGregor soccomberà a un tumore (a 54 anni) a Agen (Francia) nel 1990 dove viveva in un casale, seguito il mese dopo da Pukwana per insufficienza epatica (a 52 anni) a Londra. Quest’ultimo faceva sempre risuonare il suo sassofono contralto in un tempo presente, senza preoccuparsi di contingenze o tattiche, senza divisione tra senso musicale e quotidiano, la sua musica rifletteva una fusione tra sentimentalismo e tradizione, unite nel fuoco di Ayler e Ornette. La sua spontaneità pareva fargli esplodere lo strumento tra le mani ma subito dopo l’imprevedibilità lo poteva condurre da suoni free, funky o reggae, a pregare, ciondolare, grugnire. Nel 1995 Moholo, unico superstite del gruppo, scriverà “non posso gioire della libertà della mia terra senza pensare a voi, perché la libertà siete voi, non siete mai lontani nei miei sogni e nei miei pensieri, la
mia voce è la vostra, la nostra canzone non è stata invano”. L’urlo di questi musicisti ha dato voce a chi era costretto al silenzio in Sudafrica, documentando il loro sentire, panico, coraggio ed eredità, fisicamente erano lontani ma la fratellanza dello spirito non li separava realmente mai “...c’è un nome sulle labbra di un amico, conservato nei ricordi di un innocente uomo, vicino alla fine dei sogni persi, c’è un luogo da cercare nel cuore dove è lacerata l’esperienza, è l’arte dei sogni persi” (“Lost Opportunities”, Harry Miller). I dischi rimasti restituiscono i salti mirabolanti di temi, arie, melodie, senza mai una frattura nella continuità musicale. Compongono un arcobaleno sonoro, un grande affresco in cui ogni richiamo trova il suo spazio corretto, la funzione nell’insieme, il proprio ruolo e significato nell’architettura globale. In mezzo al loro free-jazz espressionista e orgasmico, l’ascoltatore viene abbagliato dalle pennellate che grondano dagli strumenti, dalle ondate di luce musicale, dallo scintillare di grappoli di note seguite da brusche risoluzioni, dall’armonia che regna nei richiami nostalgici di un canto primitivo. Più che danzare ci si ritrova in una trance. Tutto si incastra nell’abbondanza armonica e ritmica di un’orchestra che annuncia un inno per finire in uno standard jazz, Ellington e Monk sono talmente assorbiti da mutare respiro e voce. Un senso di orgogliosa appartenenza libertaria alla propria ancestrale cultura viene continuamente rivendicata, spesso i concerti terminavano con “You Ain't Gonna Know Me 'Cos You Think You Know Me” (Non mi conoscerai mai poiché già pensi di conoscermi) composizione di Feza. In forma radicale, senza pudori o limiti, con gioia e incandescenza, tra temi ripetitivi e deraglianti in continuazione, i loro assoli senza pelle, vulcanici, tribali, alieni, ipnotizzanti, emancipati, blasfemi, libertari, rivendicano l’esistenza di uno spazio politico da qualche parte tra posizioni di agitazione esplicita e ispirazioni artistiche profonde e oblique. Lontano dal Sudafrica questi icastici musicisti sono diventati barometro del suo stato, le loro sonorità hanno riflesso cambiamenti e sommovimenti sociali, nei quali l’apartheid appariva come una malattia. La scena inglese dell’epoca non rimase loro indifferente anche fuori dall’ambìto dell’improvvisazione: McGregor parteciperà a dischi di Alexis Korner e Nick Drake;
Feza sarà con Decameron, Henry Cow, Slapp Happy e Robert Wyatt; Dudu Pukwana ancora con Decameron, Mike Greenwood, John Martyn, Mike Heron, Jabula, Toots & the Maytals, Mike Softley; Harry Miller comparirà in Islands dei King Crimson. Perfino Richard Thompson e Simon Nicol dei Fairport Convention registreranno una improvvisata incarnazione “rock kwela” del gruppo Dudu Pukwana & Spear, assieme a Feza e Miller, ascoltabile grazie a Joe Boyd. Il jazz per loro, non rappresentava una formula vuota e intellettuale o riferita a libertà astratte: “ ...il Sudafrica è il paradiso e l’inferno, sei come un animale, ti cacciano, bussano alla tua porta ma noi non conserviamo odio, nessuno in Sudafrica è coperto d’odio…ora possiamo prendere l’aereo o un battello e andare verso altri luoghi cosiddetti liberi ma tu lo sai: io sono solo un turista qui, è là la mia vita, è là che c’è la musica, è solamente amore, l’Africa è tutta basata sull’amore, io non conosco, uomo, questo veleno che hanno piantato in Africa...non esiste arte senza tradizione, la musica che ho ascoltato la tengo con me ovunque io vada, la tradizione dev’essere sempre con me, mi dà vita” (Johnny Dyani). Si sono trasformati in una specie di messaggeri itineranti del loro Paese, il loro motto avrebbe potuto essere “Dove stiamo dunque andando? Sempre verso casa” (Enrico di Ofterdingen, Novalis - pseudonimo del poeta e filosofo tedesco Georg Friedrich Philipp Freiherr von Hardenberg - 1772/1801) da un romanzo storico ambientato tra il XIII e XIV secolo del Basso Medioevo, incompiuto e postumo come molto della storia di questi straordinari musicisti che, negli anni ’70, grazie al loro senso melodico, cambiarono i connotati dell’improvvisazione europea portando dall’Africa, il sole feroce, danzante e infantile. Proprio come la loro musica.
Flavio Poltronieri
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