Il ballo è l’antitesi dell’ascolto ma l’Hamon Martin Quintet (Mathieu Hamon: canto, Erwan Hamon: bombarda e flauto traverso in legno, Janick Martin: fisarmonica diatonica, Ronan Pellen: cetra e violoncello, Erwan Volant: basso acustico e elettrico), complesso di punta della scena festosa e danzante dell’Alta Bretagna, oltre a proporre andro, gavotte, pilé-menu, bal e rond paludiers, mazurke, laridé, rillée de Guillac, wrinkled o rond di Saint Vincent, risulta anche emblematico gruppo d’ascolto con un’elaborata proposta musicale di testi poetici cesellati e sostanziali. Progetti solistici e live vari a parte, l’attuale ensemble ha precedentemente inciso nell’ordine: “L’habit de plume” (2004), “Les métamorphoses” (2007), “Du silence et du temps” (2010), “Les vies que l’on mène” (2014), “Kharoub” (con Basel Zayed) (2016), “Clameurs” (2019). Esce ora sul mercato francese “Et si l’idée coulait de source” per la storica Arfolk, etichetta bretone dal glorioso passato. La formazione discende direttamente dal duo di adolescenti-prodigio, originari del Pays de Redon, Erwan Hamon/Janik Martin che dopo “Allune” (in quartetto), decisero di darsi una forma stabile in complesso verso inizio millennio. All’interno dei loro dischi si possono incontrare canti tradizionali armoricani e mazurke italiane, brani già ripresi da Malicorne, Marc Robine o Leonard Cohen (“La complainte du partisan”), ragazze libertine e ragazzi volubili del Pays Gallo, marinai che riportano pietre di luna e acqua che si trasforma in vino nelle grotte degli amanti. Dal loro ricco paniere si estraggono però anche liriche di Gaston Couté, Victor Hugo, Georges Brassens, Glenmor, Boris Vian, Charles Trenet, testi favolistici di Marthe Vassallo o musiche jazz di Richard Galliano e Dave Holland, canzoni tradizionali dell’Isola de la Réunion o sufi della Regione di Hérat. Perché nel mondo sonoro delle loro festoù-noz ogni albero ripara un suonatore, un cantante, qualcuno che racconti una storia, vicina o lontana che possa essere. Dopo ventitré anni di carriera, la chiave d’ascolto continua a essere una progressione continua sia stilistica che strumentale nel susseguirsi delle diverse esperienze che li ha portati una decina di anni fa (assieme al cantante-oudista palestinese Basel Zayed e al fratello percussionista Yousef) ad incrociare la tradizione del Pays di Redon con quella della Cisgiordania. I balli tondi bretoni maritati alla dabka araba, danza popolare propria di Libano, Iraq, Siria, Giordania e Palestina, il cui nome deriva direttamente dal verbo “yadbuk” ovvero “battere per terra i piedi” a rappresentazione dell’amore per il proprio suolo e della fratellanza fra le genti. Con “Notre-Dame Des Oiseaux De Fer” (composta da Sylvain Girault) in passato, avevano rivolto una supplica/requisitoria contro la costruzione di un devastante aeroporto nazionale, previsto nel territorio della Loira Atlantica. Ora il loro attivismo ambientale volge l’attenzione verso il tema dell’acqua, contro la sua captazione da parte delle grandi aziende nei confronti di un bene che sarebbe comune e gratuito. Un po’ forse parafrasando Molière, il titolo del cd in italiano suona “E se l’idea sgorgasse da una sorgente”. L’acqua è protagonista assoluta della vita di questa regione, stretta com’è tra quotidiane piogge e l’impeto assoluto di un oceano che picchia ossessivamente alle sue porte. Energia marina che diventa musica oltre le scogliere dove i suoni aprivano squarci nel tempo anche durante l’antichità, composta di organismi viventi che cambiavano forma nello stesso istante in cui cambiava l’osservatore, almeno (parafrasando Guccini) “fin dove l’occhio di un uomo poteva guardare”. Le antalgiche visioni dell’Atlantico sono materia liquida che penetra ancora metaforicamente nel cervello, che seppur nella sua intrinseca e furente aggressività, riesce a disegnare traiettorie limpide, quasi mantriche, nella successione-alternanza di momenti di calma apparente e furia iconoclasta. Un mare da immaginare ancor più che da descrivere mentre i flussi delle maree che si riversano sulla spiaggia dimostrano a modo loro, l’incedere del tempo. Anche la narrazione musicale complessiva dell’acqua di Hamon Martin Quintet reca salti spaziali e temporali dove le interpretazioni delle liriche risultano simboliche quanto naturalistiche, cariche di allusioni ed elementi concreti, strettamente intrecciati gli uni alle altre. Per la seconda volta il gruppo recupera qualcosa dell’opera di Melaine Favennec ( https://terreceltiche.altervista.org/melaine-favennec-levoluzione-della-tradizione/ ) uno dei formidabili iniziatori della canzone d’autore bretone degli anni ‘70 e autore di due seminali LP all’interno della mirabolante cooperativa Névénoe. In questo caso ne viene ripreso il recitativo “Au Gui L’An Neuf” (brano conclusivo di “Chansons Simples Et Chants De Longue Haleine” del 1978). Testo rituale-cumulativo composto a partire dalle parole di Alce Nero, nativo Sioux (“al vischio l’anno nuovo ti darò una giornata, una semplice giornata dei miei giorni, due notti di tenerezza, tre sguardi acuti e volatili sulla neve...dodici mesi dell’anno per ricominciare”). In antichità il vischio era creduto dai popoli celtici, simbolo di resurrezione, purificazione e sopravvivenza, emanazione della divinità sulla Terra, svariate canzoni tradizionali anglosassoni e nord-europee ne narrano ampiamente. La sua ritualità passata dal Medioevo e inglobata nella religione cristiana, è giunta fino all’oggi. L’ensemble impreziosisce questa ripresa proponendola in versione ritmata pilé-menu, con basso profondo e canto declinato in flussi e riflussi di crescendo a forma di trance. La ciclica ripetizione corale del ritornello ad opera di tutti i membri, accompagna verso la parte conclusiva del brano che riserva un ampio coro vocale e un fascinoso strumentale. All’interno del progetto si ascolta spesso la narrazione realistica e drammatica, così tipica di tante storie d’amore infelici di ambientazione tradizionale, dove l’unione tra gli amanti viene resa impossibile dall’opposizione di condizioni sociali che portavano spesso a erranza, eccessi, dissolutezza “...i bambini non hanno il destino nelle proprie mani, ero il figlio di nessuno quando lei nacque...ho bevuto i vini di tutte le vendemmie, ho ucciso e rubato, mi sono trascinato nel fango, brigante, torno da terre lontane portando in mano questi fiori di garofano raccolti nel mio vagabondare. Eravamo giovani, nel fiore degli anni, lasciate che li metta adesso sulla sua tomba, l'amore e il bere mi hanno fatto fare cose pazze...” (L'histoire De Ma Vie). Un capitolo a parte viene riservato al poeta e drammaturgo Paul Fort (1872 – 1960) stabilitosi a Nantes nel 1947, al tempo della seconda guerra mondiale e autore di un'abbondante opera, tra cui i circa quaranta volumi (dal 1896 al 1958) delle “Ballades nantaises de Paul Fort aux portes du large”. Alcune delle sue magistrali poesie sono state in passato musicate e cantate da par suo, perfino da Georges Brassens: “Le Petit Cheval”, “Comme Hier” e soprattutto "La Marine" che ricordiamo tradotta e incisa anche in italiano da Giuseppe Setaro e Alessio Lega come “Amori Marinai”. Il gruppo bretone sceglie di interpretare in questa occasione i testi di “Quand Le Froid Vient Me Saisir” in forma di laridé e “Où Donc Est Ma Peine” come andro. Il primo reca per tema la solitudine degli anziani “Nella mia vecchiaia non ho nemmeno un cane che mi accarezzi e mi scaldi un po' le mani con la sua lingua, è dicembre, sempre dicembre, mai un incendio nella stanza…” e fa seguito a una lunga introduzione strumentale di fisarmonica e bombarda mentre l'intervento vocale finale sottovoce, aggiunge freddezza e nostalgia per la giovinezza perduta, sinonimo di estate, calore e vigore. Il secondo è introdotto dallo zajal libanese, che tradizionalmente accompagna una poesia popolare declamata o cantata durante le celebrazioni sociali o familiari, sotto forma di giostra oratoria con tanto di risposta da parte dei presenti. Al momento delle parole di Paul Fort, la melodia scelta, appartiene alla resistenza eritrea, a cui segue un an-dro composto da Janik Martin alla fisarmonica. Il cantante solista Mathieu Hamon contribuisce a sua volta, alla scaletta, con un paio di brani originali tra cui “Voici Le Temps Et La Saison” che ispirandosi a Jeannette Maquignon (1906-1998), cantante contadina di Saint-Martin-sur-Oust, vuole rendere omaggio a tutti gli anonimi cantanti di un lontano passato (Augustine, Emile, Clémentine, Louis...) che, come contrabbandieri della memoria, hanno permesso in Bretagna, fino alla contemporaneità, la trasmissione orale di un così ricco patrimonio. Una sola canzone di “Et si l’idée coulait de source” sfugge al repertorio da danza, si tratta di “Aydinlar”, a opera della violinista-poetessa francese di radici vietnamite Julie Bonnafont, che ha adattato un testo di Abenday Tajimutatov, poeta Karakalpak di Moynaq, deceduto nel 2001 e proveniente dall’Uzbekistan. Luogo dove il lago di Aral si è ritirato in seguito alla coltivazione intensiva di cotone, fino a sparire del tutto per lasciare solamente un arido deserto. Il quintetto “celticizza” la leggenda di questa composizione uzbeka molto celebre, che narra di una ragazza che attende il ritorno del suo fidanzato ma che, ora che l’acqua è sparita, sappiamo non tornerà più “...sotto il cielo nero nella tempesta, nel mare in collera portate il mio cuore fino dal mio amore quando lo attraverserete e tu, oceano, ascoltami, riporta indietro l’amore a me che scavo costantemente l'orizzonte per ritrovarlo…” Hamon Martin Quintet, ovvero: la danza e la sua connotazione festosa sono onnipresenti in Terra Armoricana ma non oscurano in alcun modo il sottofondo letterario e poetico.
Flavio Poltronieri
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