A Filetta – i balconi (L’Autre Distribution/I.R.D. 2023)

Considerati uno dei gruppi più importanti della scena musicale corsa, A Filetta si formano nel 1978 a Lumio nella Balagne con l’obiettivo di dare vita ad un percorso di ricerca volto a preservare dall’oblio del tempo il repertorio di canti polifonici tradizionali isolani. Da quel momento ha preso il via un viaggio straordinario, non sempre rettilineo, nel corso del quale hanno spostato sempre più avanti il confine delle loro ricerche, sia attraverso il confronto e il dialogo sia con altre tradizioni musicali, sia interagendo con forme d’arte differenti dal teatro con i registi Jean-Yves Lazennec Orlando Forioso, Marion Schmidt-Kumke e Noël Casale, al cinema firmando le colonne sonore per i film e le opere di Bruno Coulais per toccare anche la danza con il coreografo Sidi Larbi Cherkaoui. Parallelamente hanno dato vita al festival "Rencontres de Chants Polyphoniques de Calvi" in collaborazione con l’associazione U Svegliu Calvese, diventato un riferimento importante per quanti si interessano alla polifonia; hanno messo in fila una ormai corposa discografia, ma soprattutto sono mancate le partecipazioni a progetti artistici originali, gli incontri e le collaborazioni tra le quali merita di essere ricordata quella con Paolo Fresu e Daniele Di Bonaventura in “Mistico Mediterraneo” e  “Danse Memoire, Danse". L’attuale formazione vede protagonisti i fondatori Jean-Claude Acquaviva, Paul Giansily e Maxime Vuillamier, a cui si sono aggiunti nel 2013 François Aragni e nel 2019 Petr’Antò Cata e Jean-Do Bianco. Il loro nuovo album “Balconi” ha preso vita durante i mesi di lockdown nel 2020, nei giorni grigi della pandemia da Covid-19, e li vede ritornare alla forma canzone e all’uso della chitarra, a trent’anni di distanza da “Una tarra ci hê”. Composto da dodici brani, il disco riflette l’atmosfera di incertezza e di paura che
caratterizzava quei giorni, raccontando il cammino che ci ha condotto dal buio alla luce, diventando metafora della nostra intera esistenza. In occasione del concerto “Umbria e Corsica: Isole Sorelle”, che li ha visti sul palco del Festival Suoni Controvento con l’Ensemble Micrologus, abbiamo intervistato Jean-Claude Acquaviva per farci raccontare questo nuovo disco, non senza rivolgere uno sguardo al loro ultraquarantennale percorso artistico.

Jean-Claude, ci puoi raccontare com’è nato il vostro nuovo album “i balconi”?
A Filetta nasce come gruppo vocale quarantasei anni fa e abbiamo fatto molti dischi di polifonia cantati a cappella, ma all’inizio abbiamo cominciato come tutti i gruppi degli anni Settanta, facendo dischi con canzoni. Dal 1994 in poi abbiamo scelto di non fare più canzoni, ma quando c’è stato il lockdown, con il confinamento di tutti noi nelle nostre case, abbiamo concepito questo disco. Ci siamo detti, ora possiamo fare qualcosa di più intimistico, di più riflessivo e, così, sono nate queste canzoni che vanno dal buio alla luce. Inizia con il lockdown in cui ci era impedito di uscire fuori e i temi delle prime canzoni sono scuri, riguardano la morte, la resilienza, i periodi più bui della vita. A poco a poco arriva la luce. Abbiamo scelto il titolo “Balconi” perché i balconi sono quella parte della casa che appartiene ad essa ma è già un po’ fuori ed erano, poi, l’unico mezzo per comunicare verso l’esterno. I brani descrivono, dunque, il cammino che ci ha condotti dal buio alla vita ritrovata.

Dal punto di vista musicale, quali sono le differenze sostanziali di questo nuovo disco rispetto a quelli precedenti? 
Questo è un disco di canzoni con sei voci accompagnate da una chitarra. Il lavoro che abbiamo fatto sulla polifonia si è focalizzato sulla forma canzona. La nostra polifonia tradizionale ha le sue specifiche modalità di canto e da queste noi ci siamo un po’ allontanati con le nostre creazioni polifoniche. Del resto, abbiamo sempre fatto una polifonia che è che non è una polifonia regolare. In “Balconi” si possono ascoltare delle canzoni che sono più facili da ascoltare, forse anche più immediate. C’è, poi, la chitarra che rende per noi le cose un po’ più semplici. Cantando a cappella ci sono più difficoltà, più tensioni. 

Quali sono le ispirazioni alla base di queste nuove canzoni?
La maggior parte dei testi sono miei, ma anche di mio fratello che lavora con me da quarant’anni. Ci sono, poi, brani in cui abbiamo messo in musica i versi di Pedru Santucci. Volevamo raccontare non solo i giorni del lockdown, ma anche cantare la vita come bene prezioso, ma anche fragile. In Corsica, come in altri paesi, abbiamo pensato che per salvare vite era necessario chiudere tutto e stare a casa. Bisognava chiudere la porta, ma questo è uno sbaglio tremendo perché la vita non può essere così. La vita non è a porta chiusa.

Com’è la risposta del pubblico durante i concerti di presentazione de “i balconi”?
Abbiamo avuto una buonissima accoglienza, anche se è sempre un rischio addentrarsi in un territorio nuovo perché il pubblico ci conosce per i nostri canti polifonici. In questo nuovo disco, però, non ci sono canti a capella come nel “Requiem” o nello “Stabat Mater” o quello sulla “Passione”, ma, nonostante ciò, è stato molto apprezzato. Chi ci segue nei nostri concerti spesso resta stupito di quello che stiamo facendo ma pian piano capisce qual è il percorso che abbiamo compiuto e alla fine ci ringrazia.

Quanto sono state importanti per voi le ricerche sul campo…
La polifonia in Corsica è stata riscoperta alla fine degli anni Settanta perché dopo la Prima Guerra Mondiale c’è stato un po’ un vuoto. Certo si cantava sempre nelle campagne, ma si sentiva sempre meno il canto tradizionale. Dagli anni Settanta sono cominciati a nascere vari gruppi che, come noi, hanno imparato i canti che erano scampati all’oblio e in quel contesto abbiamo cominciato a fare registrazioni sul campo per preservare quello che era rimasto ancora in uso. Oggi non lavoriamo più sulla musica tradizionale, perché ritengo che ci sia ormai ben poco da scoprire ancora. Certo di sono ancora oggi altri gruppi che fanno musica tradizionale, ma la verità è ci sono poche testimonianze e tracce scritte e, alla fine, oggi ci sono poche cose da scoprire.

Come si è evoluto il vostro approccio irregolare alla polifonia?
Quando è nato il gruppo siamo partiti dalla polifonia tradizionale, abbiamo imparato sia il repertorio profano sia quello sacro, come facevano tutte le altre formazioni in quel periodo. Negli anni Ottanta ci sono stati i primi incontri con altre tradizioni e la prima che abbiamo incrociato è stata quella della Sardegna. Siamo andati là a seguire le rassegne di canto sacro e popolare e quando siamo tornati in Corsica ci siamo detti che era necessario organizzare anche da noi una rassegna per invitare i vari gruppi che facevano polifonia. Abbiamo dato vita al festival di Calvi con lo scopo di incontrare e confrontarci con altre forme di polifonia e dove abbiamo ospitato all’inizio, le formazioni del Mediterraneo e poi piano piano abbiamo allargato il nostro confine. A poco a poco abbiamo cercato di ricontestualizzare il nostro modo di fare polifonia in questo insieme più ampio e ci siamo ritrovati a fare concerti con artisti georgiani, italiani, sardi, albanesi. Abbiamo portato più avanti le nostre radici musicali facendo polifonia tradizionale, ma con lo spirito di chi aveva ascoltato e fatto proprie anche altri modi di canto. Sono state innovazioni che abbiamo apportato pian piano. Abbiamo cominciato a fare delle cose sul bordone che nella polifonia corsa non esiste, ma noi lo abbiamo appreso ascoltandolo dagli albanesi, dai georgiani e dai greci del nord che fanno il basso continuo. Questo è stato il primo passo nella creazione di nuovi brani partendo dalla tradizione e facendovi confluire sonorità e modi di canto ad essa esterni.

In questo senso determinante è stato anche l’incontro con il teatro…
Una sera del mese di agosto del 1995, dopo un concerto nell'oratorio Saint Antoine di Calvi, abbiamo incontrato Jean-Yves Lazennec, giovane regista di origine bretone, ci fece i complimenti per il nostro modo di cantare, ma soprattutto per l’energia che facevamo circolare con i nostri canti. Ci disse che stava lavorando alla messa in scena di “Medea” di Seneca e che, nonostante diversi studi, si sapeva ben poco del coro nelle tragedie greche e romane; tuttavia, riteneva che il nostro modo di cantare potesse inserirsi bene in quello spettacolo. La collaborazione prese forma, qualche mese, quando ci affidò la parte del coro della tragedia e cominciammo a lavorare alle partiture e sui testi tradotti in corso dall’originale in latino. Quell’esperienza ha cambiato molto il nostro lavoro perché ci siamo confrontati con una forma poetica differente da quella del canto tradizionale, basta pensare al fatto che in “Médée” c’è un coro che canta per diciassette o diciotto minuti, qualcosa di ben diverso da una pagliella che dura un minuto e ha solo sei versi. Ci siamo trovati a fare cose del tutto nuove, ad inventarci delle soluzioni nuove, pur restando fondamentalmente quello che siamo. 

Dopo quell’incontro che modo è cambiato il vostro modo di cantare?
Abbiamo, però, avuto bisogno di allargare le nostre ricerche e fare qualcosa di più moderno nelle armonie e nelle strutture poetiche. Lavorare alla “Medea” di Seneca ci ha portato ad essere non più cantanti che
interpretavano brani di tradizione orale, ma abbiamo dovuto confrontarci anche con la composizione di materiale inedito. Certo, inizialmente, abbiamo cercato una soluzione intermedia, lasciando ancora spazio al canto tradizionale, ma successivamente abbiamo collaborato anche con altri cantati e altri compositori, arrivando oggi ad una forma di canto basata su composizioni originali. 

Le esperienze con il teatro sono proseguite anche successivamente…
In seguito, abbiamo collaborato con il regista Orlando Forioso, curando la colonna sonora dello spettacolo “Fantastica. La “Grammaire de l’imagination” su testo di Gianni Rodari, abbiamo partecipato alle opere “Marco Polo. Opéra de l’invisible voyage” e “Lucio, le rêve de l’âne d’or” con le musiche di Bruno Coulais, e lavorato alla messa in scena di “Culomba. Une Pasion Corse”. Nel 2019 abbiamo portato in scena “Ulysse sans terre, de gre o de force” ancora una volta con la regia di Orlando Forioso e “Œdipe Roi. La peur n’est pas une vision du monde” diretto da Noël Casale e tratto dalla tragedia “Edipo Re” di Sofocle. 

In oltre quarant’anni di attività, il vostro percorso è stato sempre costellato da diverse collaborazioni…
Il nostro festival a Calvi è stato sempre un luogo di incontro e da lì sono nate molte collaborazioni. Invitando artisti che vengono da altri paesi ci troviamo a confrontarci con le loro musiche e canti
tradizionali e non è raro che accada di sentirci molto più vicini di quanto si possa pensare. Dico sempre che siamo ricchi proprio perché ci sono delle differenze, lo siamo ancora di più quando scopriamo che ci sono cose in comune. Quando abbiamo ascoltato cantori che venivano dalla Russia, dall’America o dall’Africa abbiamo scoperto elementi e modi di canto che facevamo anche noi. Non bisogna cancellare tutto e cantare tutti allo stesso modo, ma è importante potersi confrontare con altre esperienze artistiche. Fare un elenco sarebbe molto lungo, ma non posso non citare l’esperienza con Paolo Fresu e Daniele Di Bonaventura, quelle con l’Ensemble Constantinople o con Abdullah Miniawy e Peter Corser. La verità è che a noi piace il canto tradizionale, ma certamente quando si va a studiarlo si comprende come sia una stratificazione di elementi diversi che si sono intrecciati passando da boca a bocca. Io vorrei cantare come mio nonno, ma io sono Jean-Claude non lui. La pratica della musica tradizionale per noi è importante, ma lo è altrettanto dare un seguito a tutto questo, e per farlo è necessario creare nuove composizioni e ascoltare altre cose. 



A Filetta – i balconi (L’Autre Distribution/I.R.D. 2023)
Durante i duri mesi di lockdown, mentre si diffondeva la pandemia da Covid-19, abbiamo riscoperto i balconi come luogo di contatto con il mondo esterno, come occasione per non sentirci soli. Da essi ci affacciavamo per ritrovarci con i nostri vicini e darci in qualche modo coraggio. In quei giorni anche la musica si è fermata e molti artisti hanno fatto di necessità virtù producendo musica nuova. Il gruppo polifonico corso A Filetta si è ispirato a tutto questo offrendoci il racconto di quei giorni, attraverso dodici brani che conducono dal buio alla lucei nei quali si intrecciano temi come l’amore, la morte, la resilienza e profonde riflessioni sulla caducità della vita e sulla nostra fragilità. In quei giorni di confinamento forzato, si sono concentrati sulla scrittura di nuovi canti e sugli arrangiamenti delle parti corali, e pian piano tra riunioni di lavoro e prove da remoto, ha preso vita “i balconi”, album nel quale hanno raccolto dodici brani inediti nei quali, a trent’anni da “Una tarra ci hê” ritrovano le corde della chitarra ad avvolgere le loro sette voci, riportandoci alle atmosfere di dischi storici del gruppo come “A Muntagnera” o “Pagliaghju di Ostriconi” dove il coro ritrova la forma canzone e con essa arrangiamenti meno articolati di quelli ascoltati negli ultimi anni. Ora coralmente, ora ritagliandosi spaccati in solo, ora ancora quasi fondendosi in una sola, le voci prendono la scena, colpiscono al cuore dell’ascoltare, impreziosite dalla trama chitarristica che ne esalta l’intensità dei timbri, gli incastri polifonici e le costruzioni armoniche e melodiche. Ad aprire il disco è la struggente storia di “Valentina” che racconta la storia di una giovane scomparsa troppo presto, a cui seguono l’introspettiva “Scarsa” e la melodia agreste di "Caprunale" con la voce principale a guidare il canto. Se “M’innamoru” è un dolce ed appassionato canto d’amore in forma dialogica con le voci soliste che duettano, sostenute dai contrappunti polifonici del coro, la successiva “Quallà” è un acquerello vibrante di passione e lirismo. L’introspettiva “Prelume” ci introduce alla sequenza in cui ascoltiamo le raffinate melodie di “A’ fa ci virtù”, “U saltere” e “U cecu di Buenos Aires” conducendoci al vertice del disco con “A’a sbunurata” e “A vuciata” nelle quali il sole torna a irradiare i suoi raggi, donando una rinnovata speranza. Il viaggio dal buio alla luce de “i Balconi” si chiude “Sponde vele” con la sua melodia che sembra evocare le onde del mare, suggellando un’opera di rara bellezza, un esempio di come si possa declinare al futuro la tradizione del canto polifonico corso nell’incontro con i linguaggi contemporanei della poesia.


Salvatore Esposito

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