Quello che colpisce di Jean Claude Acquaviva, carismatico leader di A Filetta, è l’espressione: due occhi di un colore indefinito fra il grigio e il celeste, uno sguardo da saggio, pronto ad ascoltare e a dare la sua versione sui fatti del mondo, interessato alla tua idea quanto alla propria, ma che ha sempre necessità di esprimere il proprio pensiero con lo stesso calore e la stessa passione che mette sul palco, con il viso che si trasforma alla ricerca della giusta parola o della citazione. Insomma, un grande performer anche nell’intervista, svolta in italiano e in corso («Ti parlo co ‘u me dialettu che po’ esse che mi cumprendi»). Nell’aspettare che la sala stampa del Babel Med si liberi, parliamo liberamente di politica («La Corsica è stata per decenni in mano a clan che si sono spartiti il territorio, lasciando la popolazione nell’ignoranza»), di discografia (il secondo capitolo di “Mistico Mediterraneo” con Fresu e Di Bonaventura, già pronto, è fermo ed uscirà a fine anno, non per la ECM, ma per la minuscola etichetta corsa Deda). In serata il gruppo della Balagna regalerà al pubblico marsigliese un sontuoso concerto, basato in buona parte sull’ultimo disco “Castelli”, uscito per Harmonia Mundi due anni orsono, ma con alcuni classici del repertorio, come “L’anniversariu di Minetta”.
Dopo quasi quarant’anni di attività A Filetta è il coro che, più di ogni altro, è ambasciatore del canto corso nel mondo. Ma quanto c’è di davvero tradizionale nella vostra musica ?
La nostra polifonia parte dalla tradizione, questa è una cosa sicura. Ma è una tradizione in movimento, un lavoro contemporaneo; è un tipo di lavoro diverso da quello che facciamo con Paolo Fresu e Daniele di Bonaventura che è un incontro di culture musicali. Però non si può più dire che la nostra polifonia è tradizionale, per le soluzioni ritmiche e armoniche che utilizziamo non è più la polifonia che abbiamo imparato noi da giovani. Peraltro, anche in Corsica, nel repertorio dei nostri concerti non abbiamo mai cercato il compromesso, il concerto è lo stesso, sia che suoniamo vicino a casa, sia che ci esibiamo dall’altra parte del mondo.
In Corsica come è percepito il vostro lavoro?
Non sono convinto che il pubblico corso sia consapevole della sua tradizione; in Corsica prediligono la musica che chiamerei ‘folk’: negli anni settanta c’è stato un movimento di riscoperta, che partiva da progetti come ‘Canta U Populu Corsu’, con un approccio che voleva rivitalizzare la tradizione passando anche per istanze politiche. Noi siamo sempre stati ribelli, almeno musicalmente. Non sono convinto che fare un concerto di musica tradizionale possa essere interessante per noi e per il pubblico, abbiamo sempre preferito fare la musica nostra.
Secondo la richiesta di festival e organizzatori possiamo modulare il repertorio, rendendolo maggiormente tradizionale o sacro o contemporaneo, questo può dipendere da chi ci invita.
Ci sono connessioni fra il vostro canto e la polifonia di altre regioni, come ad esempio la Georgia o Sardegna?
Assolutamente. Con gli anni ci è parso evidente che a livello armonico, a livello di tessitura vocale, di architettura musicale e per quanto riguarda l’uso di melismi e ornamentazioni ci sono delle similitudini con i canti di altre regioni, come per esempio Georgia e Grecia. E anche nei tipi di repertorio: c’è una tipo di repertorio marcatamente religioso e uno secolare o profano.
L’origine del modo di cantare corso è religioso?
Molti dicono di sì. Io dico che probabilmente non lo è, e ti spiego la mia teoria. I Francescani che sono venuti ad evangelizzare la Corsica fra il tredicesimo e il quattordicesimo secolo hanno introdotto nel mondo della musica colta (il Canto Gregoriano etc.) melodie e tecniche vocali, nasalizzazione e modi di portare la voce, che in Corsica erano pre-esistenti e che, attraverso il canto religioso sono stati poi diffusi e grazie a quello sono sopravvissute nei secoli successivi. Insomma l’origine per me non è religiosa.
Il modo in cui noi abbiamo appreso è in maniera esclusiva ‘de bouche a oreille’, o ‘a bocca’, come diciamo da noi. Si imparava a cantare in famiglia, nelle ricorrenze e a tutt’oggi metodi e repertori non vengono ‘insegnati’, nel senso normale del termine, come farebbero nelle scuole o nei Conservatori. All’ Universitè de Corse hanno istituito dei corsi di musica tradizionale che provano a insegnare in maniera classica anche la Polifonia; ancora non possiamo dire che risultati otterranno, se riusciranno a formare dei bravi cantori. Credo che ancora i cantori migliori verranno fuori dalle famiglie e dalle confraternite. Trovo difficile trasmettere i fondamenti di questa musica in una maniera che non sia orale: dal punto di vista ritmico, la polifonia corsa è una cosa libera, che viene male a inquadrare, questo sia dal punto di vista strettamente musicale che della sillabazione, la ritmica dei versi, la prosodia. Non è facile da annotare su un pentagramma, deve essere appresa per imitazione, per osservazione o per ‘mimetismo’, non è musica che puoi apprendere con un metodo scritto. Oltre questo, come tutte le pratiche polifoniche, bisogna anche cercare la complicità, l’equilibrio, l’amalgama fra i cantori: dopo lo stadio della comprensione c’è quello dell’esecuzione, bisogna anche poter cantare, non è la stessa cosa, puoi capire in cinque minuti come funziona, ma potrebbero servire anni per riuscire a cantare.
Nella musica classica ci sono i valori delle note, hai un codice universale per poterla leggere ed eseguire, nella polifonia tradizionale no. Inoltre c’è anche una componente improvvisativa che è impossibile da trasmettere se non con la pratica.
La pratica delle collaborazioni nel mondo della musica popolare sono diventate la norma, voi stessi avete partecipato a produzioni originali con numerosi e importanti musicisti.
L’incontro musicale è da sempre nel nostro dna. Ma anche lo scontro... quando abbiamo lavorato con musicisti dell’Isola di Reunion o i giapponesi del Koto non è stato facile, sono culture, almeno apparentemente, non compatibili e il risultato finale è aperto a tutte le possibilità: la grande sfida è rimanere se stessi. Quando suoniamo con Paolo Fresu non diventiamo jazzisti, quando cantiamo con la libanese Fadiha Tomb El-Hage non diventiamo arabi, ma c’è la possibilità di trovare un territorio comune. Devo dire che il fatto di aver concepito negli anni una musica che in qualche maniera esce dalla tradizione ed è anche un po’ ‘fissa’, un po’ scritta, sicuramente ci ha aiutato, perché un incontro fra tradizioni è complicatissimo. Paolo Fresu mi dice sempre che in Sardegna i cantanti tradizionali sono imprigionati nella tradizione e che un’operazione come quella che fa con noi, in Sardegna sarebbe impossibile.
Noi facciamo una musica che ormai non è più tradizionale e questo ci aiuta. La collaborazione, la ‘creatiòn’ è sempre rischiosa, c’è il rischio che non funzioni, quello che il pubblico possa non capire, o percepisca che si tratta di un’operazione soltanto commerciale e il rischio che non ci si trovi musicalmente o personalmente.
Quanti gruppi corali in corso esistono al momento?
Guarda, fra quelli che fanno attività professionale internazionale e quelli che hanno una circolazione limitata al territorio corso, direi che se ne possono contare fra i sessanta e i settanta. Ogni anno ne vengono fuori di nuovi. Parlo sia di ensemble tradizionali che più moderni.
Mi ha sempre incuriosito il fatto che durante la performance, il tuo volto si trasfigura, raccontami…
Io canto così perché non so cantare altrimenti, non ho e non abbiamo mai lavorato sulla mia interpretazione, mi viene naturale; io quando canto sono in sofferenza, e soffro per due ragioni, una puramente fisica, perché ho qualche problema alle corde vocali, un problema di passaggio dell’aria, e necessito di maggiore sforzo e i medici mi hanno detto che devo ridurre l’attività e che non posso andare ancora avanti per molto e questo mi fa soffrire, oltre al problema in sé; e poi che sono in costante ricerca di quell’equilibrio che in quarant’anni di attività non abbiamo mai trovato e anche questo mi crea sofferenza (ride, ndr)...
Gianluca Dessì
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