
Dopo quasi quarant’anni di attività A Filetta è il coro che, più di ogni altro, è ambasciatore del canto corso nel mondo. Ma quanto c’è di davvero tradizionale nella vostra musica ?

In Corsica come è percepito il vostro lavoro?
Non sono convinto che il pubblico corso sia consapevole della sua tradizione; in Corsica prediligono la musica che chiamerei ‘folk’: negli anni settanta c’è stato un movimento di riscoperta, che partiva da progetti come ‘Canta U Populu Corsu’, con un approccio che voleva rivitalizzare la tradizione passando anche per istanze politiche. Noi siamo sempre stati ribelli, almeno musicalmente. Non sono convinto che fare un concerto di musica tradizionale possa essere interessante per noi e per il pubblico, abbiamo sempre preferito fare la musica nostra.

Ci sono connessioni fra il vostro canto e la polifonia di altre regioni, come ad esempio la Georgia o Sardegna?
Assolutamente. Con gli anni ci è parso evidente che a livello armonico, a livello di tessitura vocale, di architettura musicale e per quanto riguarda l’uso di melismi e ornamentazioni ci sono delle similitudini con i canti di altre regioni, come per esempio Georgia e Grecia. E anche nei tipi di repertorio: c’è una tipo di repertorio marcatamente religioso e uno secolare o profano.
L’origine del modo di cantare corso è religioso?
Molti dicono di sì. Io dico che probabilmente non lo è, e ti spiego la mia teoria. I Francescani che sono venuti ad evangelizzare la Corsica fra il tredicesimo e il quattordicesimo secolo hanno introdotto nel mondo della musica colta (il Canto Gregoriano etc.) melodie e tecniche vocali, nasalizzazione e modi di portare la voce, che in Corsica erano pre-esistenti e che, attraverso il canto religioso sono stati poi diffusi e grazie a quello sono sopravvissute nei secoli successivi. Insomma l’origine per me non è religiosa.
Il modo in cui noi abbiamo appreso è in maniera esclusiva ‘de bouche a oreille’, o ‘a bocca’, come diciamo da noi. Si imparava a cantare in famiglia, nelle ricorrenze e a tutt’oggi metodi e repertori non vengono ‘insegnati’, nel senso normale del termine, come farebbero nelle scuole o nei Conservatori. All’ Universitè de Corse hanno istituito dei corsi di musica tradizionale che provano a insegnare in maniera classica anche la Polifonia; ancora non possiamo dire che risultati otterranno, se riusciranno a formare dei bravi cantori. Credo che ancora i cantori migliori verranno fuori dalle famiglie e dalle confraternite. Trovo difficile trasmettere i fondamenti di questa musica in una maniera che non sia orale: dal punto di vista ritmico, la polifonia corsa è una cosa libera, che viene male a inquadrare, questo sia dal punto di vista strettamente musicale che della sillabazione, la ritmica dei versi, la prosodia. Non è facile da annotare su un pentagramma, deve essere appresa per imitazione, per osservazione o per ‘mimetismo’, non è musica che puoi apprendere con un metodo scritto. Oltre questo, come tutte le pratiche polifoniche, bisogna anche cercare la complicità, l’equilibrio, l’amalgama fra i cantori: dopo lo stadio della comprensione c’è quello dell’esecuzione, bisogna anche poter cantare, non è la stessa cosa, puoi capire in cinque minuti come funziona, ma potrebbero servire anni per riuscire a cantare.

La pratica delle collaborazioni nel mondo della musica popolare sono diventate la norma, voi stessi avete partecipato a produzioni originali con numerosi e importanti musicisti.
L’incontro musicale è da sempre nel nostro dna. Ma anche lo scontro... quando abbiamo lavorato con musicisti dell’Isola di Reunion o i giapponesi del Koto non è stato facile, sono culture, almeno apparentemente, non compatibili e il risultato finale è aperto a tutte le possibilità: la grande sfida è rimanere se stessi. Quando suoniamo con Paolo Fresu non diventiamo jazzisti, quando cantiamo con la libanese Fadiha Tomb El-Hage non diventiamo arabi, ma c’è la possibilità di trovare un territorio comune. Devo dire che il fatto di aver concepito negli anni una musica che in qualche maniera esce dalla tradizione ed è anche un po’ ‘fissa’, un po’ scritta, sicuramente ci ha aiutato, perché un incontro fra tradizioni è complicatissimo. Paolo Fresu mi dice sempre che in Sardegna i cantanti tradizionali sono imprigionati nella tradizione e che un’operazione come quella che fa con noi, in Sardegna sarebbe impossibile.

Quanti gruppi corali in corso esistono al momento?
Guarda, fra quelli che fanno attività professionale internazionale e quelli che hanno una circolazione limitata al territorio corso, direi che se ne possono contare fra i sessanta e i settanta. Ogni anno ne vengono fuori di nuovi. Parlo sia di ensemble tradizionali che più moderni.
Mi ha sempre incuriosito il fatto che durante la performance, il tuo volto si trasfigura, raccontami…
Io canto così perché non so cantare altrimenti, non ho e non abbiamo mai lavorato sulla mia interpretazione, mi viene naturale; io quando canto sono in sofferenza, e soffro per due ragioni, una puramente fisica, perché ho qualche problema alle corde vocali, un problema di passaggio dell’aria, e necessito di maggiore sforzo e i medici mi hanno detto che devo ridurre l’attività e che non posso andare ancora avanti per molto e questo mi fa soffrire, oltre al problema in sé; e poi che sono in costante ricerca di quell’equilibrio che in quarant’anni di attività non abbiamo mai trovato e anche questo mi crea sofferenza (ride, ndr)...
Gianluca Dessì
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