Dopo l’ottimo “Live at Daryl’s house Club” di Willie Nile, recensito nel numero 655 è ora la volta di un altro grande autore statunitense, Steve Earle. Il suo nuovo album, intitolato “Alone again”, raccoglie canzoni registrate nel corso di una serie di concerti da lui tenuti in Gran Bretagna lo scorso anno, tre delle quali inedite. Un tour acustico, solo voce e chitarra, la cui dimensione intima, in cui sembra annullarsi la distanza tra artista e pubblico, esalta le sue abilità come cantante e come chitarrista, e rende pienamente la sua capacità di essere voce dei dimenticati, degli esclusi, di quelli che vivono ai confini, siano essi tra stati o tra il bene e il male, tra la speranza e la nostalgia, tra l’amore -in tutte le sue accezioni- e la rabbia. Ascoltate ad esempio il racconto di un assassino in “The devil’s right hand”, oppure il ragazzo di “Someday”, che vuole inseguire i propri sogni a bordo di un 67 Chevy; od ancora il veterano del Vietnam che inizia a coltivare coca nel Tennessee di “Copperhead road”. Sono storie in cui si avverte da parte di Earle un’adesione e una partecipazione che non ritroviamo in altri autori e che in altri appare, se non persa, appannata dalle logiche dello show business globale. D’altra parte Steve Earle è da sempre un attivista e partecipa o promuove campagne politiche e per i diritti umani, prima fra tutte quella contro la pena di morte, collocandosi a volte su posizioni scomode, che ne hanno in parte condizionato la carriera. Come la qui inclusa “It’s about blood”, che narra del disastro minerario dell’Upper Big Branch, avvenuto nel 2010, in cui i nomi dei 29 minatori periti nell’incidente e citati da Earle nel finale di canzone tengono insieme dimensione politica e personale, le storture di una visione del lavoro basata sul profitto e le storie delle persone, le loro relazioni, i loro legami famigliari e amicali. In alcuni casi poi “quelli” sono lo stesso Steve Earle. Perché il Nostro ha vissuto momenti difficili, situazioni di crisi e drammi, l’ultimo dei quali, nel 2020, la morte per overdose del figlio Justin Townes (il cui secondo nome è probabilmente un omaggio all’amico e maestro del padre Townes Van Zandt). In tutto ciò Earle ha però sempre trovato salvezza e conforto nella musica. E che musica! Che sia un blues in stile classico come “South Nashville blues”, intimissime night song come “My old friend the blues” (ancora una volta il potere salvifico della musica) o “Goodbye”, solide road song come “Guitar town” e “I ain’t ever satisfied” (peraltro due tra le sue più famose), o brani che rimandano ai legami tra la musica bianca americana e l’Irlanda (lo strumentale “Dominick St.” o la nota “Galway girl”), Steve Earle si fa ammirare ed amare per la grande tecnica chitarristica e per la voce, capace di una duttilità che dà immediatamente il senso di una canzone anche senza soffermarsi sul testo. Ed alla fine anche noi diventiamo partecipi di storie così personali da ascoltarle con un certo pudore; canzoni che entrano nella nostra mente e nel nostro cuore, per rimanervi. Completano la lista dei titoli “Now she’s gone”, racconto di un addio; “CCKMP”, cioè “Cocaine Cannot Kill My Pain”, che rimanda al suo ormai passato rapporto con la droga; “Trascendental Blues”, dagli echi west coast; la frizzante e leggera “Sparkle and shine”. Una nota sulla coloratissima copertina dell’album, in linea come stile con quelle dei precedenti album di Steve Earle.
Marco G. La Viola
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