La centralità di un gruppo come gli Almamegretta negli anni Novanta (simile a quanto fece Pino Daniele un paio di decenni prima) risiede nella loro capacità di trasformare una tradizione locale e autoreferenziale in un luogo di traduzione e trasformazione. In fondo, è questa la sfida della musica, no? I suoni ci portano fuori dall’ordinario senza chiedere il permesso ai linguaggi abituali dell’ordine culturale stabilito. Al di là del potere limitato delle parole, i suoni, riorganizzati in musica, promuovono non solo un’esperienza estetica, ma anche un’etica, che ci fa toccare con mano la possibilità di appartenere a un mondo eterotopico, al nostro fianco e ancora da venire. Non meno importante è quanto sottolineato da Pisano: il riconoscimento istituzionale messo in atto con Napoli Spacca, attraverso pratiche e progetti legati allo studio sonoro dei territori, spesso passato sotto silenzio pur esistendo da molti anni, con gruppi di lavoro, ricercatori e artisti napoletani hanno acquisito una rilevanza internazionale. Per Pisano, il suono contribuisce ad analizzare e attraversare un territorio, percependone i cambiamenti legati ai processi capitalistici. Il suono, infatti, è una potente chiave di lettura, “un dispositivo critico di grande potenza”. Naturalmente, il progetto è culminato con la performance serale nel cortile del Maschio Angioino. Sul palco, dietro i due artisti, le luminarie di una festa patronale. I melismi del canto contadino di tradizione orale hanno aperto il concerto: un omaggio a Marcello Colasurdo, portato sotto quella che era la sua casa a Pomigliano d’Arco nel primo anniversario della sua scomparsa. La ritualità, che sarà un tema ricorrente dell’opera di Pòlcari e Braithwaite, si scontra immediatamente con la texture ora aggressiva e pressante, ora più sospesa e dilatata. La chitarra dello scozzese, che fa largo uso di pedali ed effetti, disegna vasti spazi sonori. La fonografia della città fa da sfondo e da tappeto sonoro ma pure interseca, alimenta ed espande l’assetto musicale: “Abbiamo fatto due giorni interi di registrazioni sul campo a Napoli. Ho creato un canovaccio di posti dove volevo andare per avere uno scheletro organizzativo, ma ci siamo poi lasciati prendere dal flusso randomico di quello che accadeva intorno a noi nella città”, mi racconta Pòlcari,
che sottolinea la volontà di produrre “immagini sonore” della metropoli mediterranea con voci, suoni di strada e di ambienti naturali, catturati a partire à metà dello scorso luglio che hanno anche fissato momenti della festa della Madonna del Carmine in Piazza del Carmine: “uno dei pochi se non l’ultimo rito sacro/pagano rimasto nella città metropolitana”, aggiunge il musicista. In questo ribollente e multiforme archivio trova “cittadinanza sonora” lo street sound dello storico mercato ittico di Porta Nolana, dove “nuove” soggettività napoletane sono la testimonianza dei passaggi migratori contemporanei. Precisa Polcari: “L’ho trovato estremamente simbolico perché oramai è un mercato multi-kulti dove le attività di vendita storiche sono gestite da uomini e donne che sono nati in altri Paese. Tutto ciò veniva fuori da un mercato rionale, considerato un classico esempio di napoletanità”. Dalle dichiarazioni pubbliche raccolte proprio in sede di panel, si è appreso che questo archivio di suoni sarà successivamente reso pubblico e fruibile gratuitamente da tutti attraverso il portale Napoli Città della Musica. Sperando che si possa trattare di un archivio in permanente ampliamento, aperto a un ri-uso ispirativo e creativo. Voci indistinte, dialoghi captati al volo, sequenze festive e profane, litanie religiose, ritmi di tammurriata, echi di canto ‘a fronna, frastuoni ma anche episodi più dolci, immagini sonore di piazze, rumori di trasporti pubblici e del mare non oleografico “osservato” dall’area commerciale dello scalo portuale partenopeo, si alternano nella consistenza sonora multi-stratificata e iterativa ideata dalla coppia di artisti, che mettono in campo connotazioni noise e ambient, post-rock e post-dub, non facendosi mancare nuance pop e funky, ma mantenendo costante l’avvolgente e atmosferica tensione sonora. È il segno distintivo di una perlustrazione sonica che intende – e lo fa con successo – cogliere e interpretare la vitalità frenetica della città, dal centro ai margini. Piuttosto che un mero esercizio di memoria (come possono essere i field recordings),
le architetture musicali di Pòlcari e Braithwaite si manifestano come un’estetica intesa a ricomporre lo spaccato sonoro urbano, scardinando e rimodulando in maniera inattesa certezze formalizzate, provando a predisporre nuove visioni e scritture sempre in transito, perché le pratiche sonore, se vogliono incidere sull’immaginario, non possono avvalorare identità statiche o esaltare una narrazione auto-rappresentativa esotica (e a tratti tossica, oserei dire, in cui la Napoli gentrificata di pizze spritz à go go si crogiola) per non smarrire la propria azione trasformativa. Alla fine, l’attento pubblico, convenuto numeroso (l’ingresso era gratuito su prenotazione), ha applaudito con convinzione questo sguardo efficace e originale e non conciliante che, auspichiamo, non resti un hic et nunc, alimentando futuri percorsi sonori.
Ciro De Rosa
Foto di Pietro Previti
Video per gentile concessione di Giulio Di Donna
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