Le contaminazioni con i repertori tradizionali romeni, polacchi, russi, ungheresi e balcanici in genere, tipica del primo klezmer askenazita, si sono mescolate con il jazz gitano di Django e del meno conosciuto Misha Demitro Tsiganoff. Quest’ultimo, figlio di Yanchie Demitro Tsiganoff e Vorgja Nickolama, era fisarmonicista originario di Odessa sul Mar Nero, dall’Ucraina emigrò negli Stati Uniti a fine ’800, vivendo tra Brooklyn e Manhattan e a New York aprì pure un ristorante. Virtuoso, ricco di fantasia e colorita enfasi musicale, nonostante fosse di fede cristiana, conosceva bene lo yiddish e nei decenni ‘20 e ‘30 si unirà a parecchie formazioni jazz di origine mista e con le star klezmer del momento: Molly Picon, David Medoff, Moishe Oysher, Dave Tarras. La Ziganoff Jazzmer Band si è avvalsa nel corso degli anni, dell’apporto di alcuni celebri solisti come il chitarrista bolzanino Manuel Randi, il violinista ucraino Igor Polesitsky o (anche recentissimamente) l’ungherese Kalman Balogh (cimbalom), continuando il proprio percorso nel tentativo, come afferma Morelli, di “klezmerizzare il jazz e manouchizzare il klezmer”. In questa serata dal vivo, ha offerto i propri arrangiamenti di “A Glezele Vayn”, “Charleston”, “Minor Swing”, “Lebedik”, “Trello Hasaposervico” (loro unico brano di origine greco-sefardita). Ha selezionato canzoni ucraine provenienti dalla raccolta Beregovsky come “7:40”, dall’orario del treno che partiva da Mosca per la Crimea e “Limonciki” il cui testo reciterebbe “vieni dove vuoi che sei sempre bene accetto”. Si è quindi spostata in Transilvania, regione dai tre toponimi a seconda delle differenti antiche comunità linguistico-religiose: “Siebenbürgen“ (tedesca), “Erdély” (ungherese), “Transilvania” (rumena). Sempre dalla terra magiara ha poi proposto sia il boogie “Hora Della Bin Bin” in rivalità con quello più famoso a stelle e strisce, che “Monti Csárdás” musica concertistico-rapsodica del 1904,
composta partendo dall’omonima danza popolare ungherese, dal direttore d’orchestra e violinista napoletano, Vittorio Monti (1868 – 1922). Un pezzo da cui non può assolutamente prescindere nessuna orchestra gitana che si rispetti. E non è mancato l’irresistibile “Bei Mir Bistu Shein” (che avrebbe un testo composto da Jacob Jacobs sulla melodia di Sholom Secunda), altro brano popolarissimo perfino nelle sale da ballo della Germania nazista, prima di essere bandito a causa dell’“agghiacciante” scoperta che... proveniva da penna ebraica. La conclusione della nottata viene riservata al travolgente arrangiamento che unisce “Koilen/Silberne Lhasene/Bella Ciao” in coda al quale il pubblico ha improvvisato, per i musicisti, a cappella, il canto in coro dell’intero testo di quest’ultima. Nel 1919, Mishka Tsiganoff aveva registrato due brani per un 78 giri di accordion solo, presso la Columbia Records americana, il titolo del lato A era “קויהלען טאַנץ" (Koilen = Carbone) che possiede il medesimo incipit di “Bella Ciao”. Qualche decennio fa su alcuni giornali italiani apparve la notizia della scoperta dell’origine ebraica del celebre brano rivoluzionario partigiano. Ma esistono vari brani klezmer che hanno quello stesso inizio, come “Silberne Khasene” (Nozze D’Argento) e la tortuosa strada di “Bella Ciao” è peraltro doviziosamente già nota. La musica klezmer è cultura in movimento e di mescolanze, ha sempre cucito ai contenuti e alle forme degli abiti offerti dalla propria tradizione, i bottoni staccati dalle varie culture d’accoglienza. Le formule melodiche delle piccole comunità dei villaggi dell’est Europa si sono storicamente articolate con quelle provenienti dai ghetti urbani e quel loro suono senza rivali per
turbolenza, passione e tenerezza, come avrebbe potuto non farlo con quelle del jazz apparso nel Nuovo Mondo a fine ’800?! Misteriosamente però, tanto nomadismo non ha intaccato l’unità d’intenti e l’anima yiddish comune, all’incrocio di una ebraicità continua dove tenerezza e malinconia si mescolano perennemente all’humour quotidiano che può riguardare qualsiasi argomento, compreso il più sacro. Ironia utilizzata come maniera di trasfigurare, di rendere vivibile un’esistenza sovente mediocre, come rifiuto di cedere alla pesantezza di eventi altrimenti insopportabili, nel tentativo di riconciliarsi con una gaiezza che si fa danza. In quel punto sonoro preciso dove l’Altissimo lontano e il bassissimo vicino, riescono a comunicare in seno a un’amorevole esaltazione che è tratto distintivo di tutta la tradizione chassidica. “Attraverso l’amore si unisce il mondo corporale con quello spirituale, il corruttibile con l’eterno” recita infatti un celebre motto ebraico. Il loro umorismo, comprendente sempre sottile autocritica e sarcasmo, è in permanente analisi delle Sacre Scritture ma è anche sciarada serissima che tocca parti importanti dell’identità. Tra tragico e comico, dietro una risata c’è il pianto e il pianto è sempre lì lì per diventare riso. Anche in musica mostra questa capacità di aprirsi a una visione universale dell’esistenza, di conservare perennemente i connotati identitari del proprio popolo. Molto di ciò che si suona attualmente in ambito klezmer-askenazita, si deve alle mirabili trascrizioni del folklorista sovietico Moisei Iakovlevich Beregovsky, ex-studente di violoncello al conservatorio di Kiev che svolse gran parte delle sue appassionate e pionieristiche ricerche, in condizioni antireligiose. Grazie al conseguimento di
una astuta sovvenzione bolscevica, creò il più vasto archivio di musica popolare ebraica d’Europa orientale, negli anni ‘20 e ‘30. Antecedentemente al XX secolo non esistevano registrazioni di canzoni popolari (la prima risale al 1901), solo un po’ di vaudeville yiddish, musica cantoriale e poco altro. Non rimaneva che la tradizione orale. Moisei è mancato nel 1961, sarebbe fantastico che oggi potesse conoscere anche il resto della storia. A lungo si credette infatti che i suoi archivi fossero andati distrutti nella seconda guerra mondiale, miracolosamente riapparvero invece, dopo la caduta del Muro di Berlino, in una biblioteca di Kiev verso metà anni ‘90. Giusto nel periodo in cui l’interesse verso questi suoni era internazionalmente montante. Nato in Ucraina nel 1892, suo padre era un “melamed” (insegnante itinerante), dal ‘29 al ‘47, raccolse tutto il folklore ebraico che trovò presente nel territorio, effettuando migliaia di registrazioni sul campo, fissate su settecento cilindri fonografici, trascrivendo musiche e testi. Un paio di anni dopo venne arrestato da Stalin e inviato a Tayshet (Irkutsk) in Siberia, dove rimarrà per quattro anni. Il klezmer si è mosso alla ricerca dei luoghi, in quei tempi lontani, i suoi aneliti hanno fiutato gli spazi di Yiddishland nei mercati di commercianti Bizantini o nelle bottegucce di artigiani orientali. Luoghi oggi ai margini dell’Unione Europea moderna tra Polonia, Bielorussia e Ucraina dove nessuno più ricorda i suoni delle strade, delle case, dei templi. Ma dove basta tendere l’orecchio alle pietre delle sinagoghe per sentire rivelate ancora storie chassidiche indimenticabili, mormorii di carrozze sulle strade, richiami, odore di cannella dai negozi. Muri dalla fronte oramai ricoperta di muschio e dove ogni solco è un pensiero di stupore nell’intuire i prossimi capitoli della sconosciuta storia che si aprirà davanti a loro. Il che non cancellerà che, con i loro stracci e dai loro miserabili angoli di strade metropolitane, i suonatori di musica klezmer sono arrivati ai jazz club, ai teatri, alle orchestre e agli studi di registrazione dell’opulento mercato occidentale odierno.
Flavio Poltronieri
Foto di Fiorenzo Zeni
Video tratto dal concerto al Filmfestival della Lessinia
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