#BF-CHOICE
nella veste di produttore artistico (come lui preferisce definirsi) della BabelNova Orchestra. (Daniele Cestellini)
Cosa distingue BabelNova dall’esperienza precedente dell’OPV?
BabelNova Orchestra ha una struttura più orizzontale, nel senso che per dimensioni è un’orchestra, per modalità di lavoro è più una band senza una figura centrale che la dirige e ne indirizza le scelte artistiche “dall’alto”. È una realtà in cui tanti musicisti che per venti anni hanno fatto parte dell’Orchestra di Piazza Vittorio, prima tra le orchestra multietniche nate in Italia, si sentono pronti per fare un percorso nuovo e corale nel quale hanno maggiore protagonismo e responsabilità sulla riuscita del progetto. Per questo parlo di gruppo e non di orchestra. A me piace definirmi più produttore artistico che direttore. Cerco di fare una sintesi tra le tante proposte e visioni diverse suggerendo un percorso e una modalità di lavoro per la loro realizzazione. Facendo una metafora calcistica, è una squadra con un allenatore-giocatore in campo.
Siamo andati oltre la “necessità”, diventata quasi moda, delle orchestre multietniche, come si chiamavano vent'anni fa? Proviamo a dire cosa è successo in questi due decenni in termini di cambiamenti culturali e musicali?
Quella necessità, come giustamente la definisci tu, era la conseguenza di quella che veniva percepita come una novità in questo paese, i fenomeni migratori. L’improvvisa paura del “diverso” e il timore, tanto bandito ai quattro venti da una certa politica che allora come oggi fa leva sullo stupido terrore che la cultura italiana venga cancellata dagli stranieri, stimolava gli artisti italiani a mettere assieme musicisti di tanti paesi diversi e a proporre un suono nuovo in risposta a leggi che creavano cittadini di serie A, cittadini di serie B e cittadini clandestini. Era senza dubbio la voglia di rispondere con i fatti e di mostrare come la società fosse già più avanti dei politici che la rappresentavano. Mischiare le culture, come diceva sempre Mario Tronco, direttore dell’Orchestra di Piazza Vittorio, produce bellezza. E in questa bellezza ognuno di noi è cresciuto e ha trovato un modo nuovo di esprimersi. Il fatto che dopo quell’esperienza siano nate moltissime orchestre multietniche in Italia per noi è motivo di grandissimo orgoglio perché con il nostro lavoro in qualche modo abbiamo spinto gli altri a uscire dall’anonimato e a emulare quel percorso. Oggi lo scenario è radicalmente mutato, siamo alla terza generazione di immigrati in Italia. Nelle scuole materne ci sono già i figli delle seconde generazioni, quindi il problema non è solo integrare e dare spazio al talento degli stranieri che arrivano da fuori ma è quello anche di raccontare che chi nasce in Italia da genitori immigrati non è straniero, ma italiano al 101%. Il Festival di Sanremo è stato vinto due volte dal figlio di un egiziano, le classifiche sono piene zeppe di singoli scritti dai figli dell’immigrazione e noi ancora stiamo a discutere di tratti genetici, di italianità, di colore della pelle. Inoltre la sensazione di esotico che vent’anni fa c’era rispetto a certe sonorità è diminuita, la musica si evolve, così come la società. Una tabla, un djembe o un oud non ci sembrano più piovuti da Marte, ma li ritroviamo in tanta musica che riempie le classifiche. Oggi viviamo in una società compiutamente multietnica che noi cerchiamo di raccontare in musica provando a fare una proposta che sia più urbana. Le sonorità della World Music non vengono assorbite ma si mischiano con naturalezza e alla pari a codici musicali più “occidentali". Il nostro è un tentativo di rappresentare una società dove l’immigrato non sia soltanto forza lavoro sottopagata e
sfruttata da tenere nascosta, ma sia un individuo che abbia pari diritti e possibilità di esprimere il proprio talento.
Chi sono i dodici componenti di questa nuova orchestra?
In questa nuova orchestra ci sono musicisti che vivono in Italia da venti o addirittura da trent’anni, come anche chi è qui da poco. Sono artisti che hanno già collaborato assieme e che hanno avuto già molti punti di contatto, sia all’interno dell’Orchestra di Piazza Vittorio che in tante realtà della world music italiana. Ci sono anche musicisti italiani e ci sono le seconde generazioni. A me piace dire che è un gruppo italiano, che canta in altre lingue e che suona strumenti del Mondo senza porsi limitazioni.
Come mai c’è sempre un italiano di “antico” insediamento a dirigere un’orchestra composta da musicisti di diversa provenienza anche se in Italia da tantissimo tempo e pienamente dentro il tessuto culturale del Paese?
Credo sia dovuto alla nostra naturale predisposizione alla neutralità e a una visione di insieme nella quale rinunciare a un pezzo di sé stessi, del proprio ego, per permettere agli altri di esprimere il proprio valore e il proprio punto di vista. Per me è stato più facile, sono nato a Roma, suono il basso che di per sé è già uno strumento equilibrista che amalgama e accompagna. Lavoro da 25 anni in contesti multietnici e questa nuova sfida della BabelNova cerca in modo nuovo di rompere questa regola dell’italiano al comando. Cerchiamo assieme di proporre un linguaggio originale, nostro e a turno diventiamo leader alla pari della musica che suoniamo. Ad ogni modo proprio due dei musicisti della BabelNova conducono con grande successo esperienze multietniche. Ziad Trabelsi, talentuoso compositore cantante e suonatore di oud tunisino, dirige da anni Almar’à, l’Orchestra delle donne arabe e del Mediterraneo, una realtà straordinaria di base a Firenze che partendo dalla musica araba permette a tante musiciste che vivono in questo paese di emergere e di elaborare un proprio modo nuovo di fare musica. Simone Ndiaye, ventiseienne musicista romano di padre senegalese, conduce la Piccola Orchestra di Tor Pignattara, gruppo rivolto agli adolescenti di seconda generazione che da dodici anni mette assieme ragazze e ragazzi con genitori che hanno provenienze da ogni parte del mondo. Ne è stato il bassista adolescente per molti anni, quando io stesso ho avuto la fortuna di dirigere quell’Orchestra, e ora con grandi qualità ne è diventato il direttore. Queste sono due facce della stessa medaglia. Uno è musicista straniero è arrivato in Italia più di vent’anni fa che, oltre a fare un percorso individuale di grande successo, dirige un’orchestra grazie anche all’esperienza fatta in Italia. L’altro invece è un musicista nato in Italia da papà senegalese e mamma italiana, che ha fatto un percorso da studente, è cresciuto musicalmente e ora è pronto per condividere la sua esperienza e metterla a disposizione delle nuove generazioni. Vedrai che nel giro di pochi anni sarà normale vedere situazioni come queste ovunque.
In “Magma” c’è moltissima scrittura corale, molti dei brani hanno più firme proprio perché passano di mano in mano e soprattutto tra mani molto diverse tra di loro. Le idee compositive del singolo vengono condivise con gli altri, prendono nuova forma e diventano qualcosa di fluido e indefinito, di cui non si conosce più né l’inizio né la direzione finale, un po’ come il magma che muta, non ha forma solida e cambia continuamente percorso.
A cosa attinge la scrittura musicale?
Direi che la componente ritmica è sempre alla base delle nostre composizioni, sia nella parola che negli arrangiamenti. Non c’è una ricerca stilistica specifica, non puntiamo a fare un brano in uno stile piuttosto che un altro, ma mettiamo sempre al centro la visione di una musica che svegli le coscienze e che con leggerezza inviti il pubblico a riflettere sul significato di quello che rappresentiamo sul palco. Per questo l’obiettivo iniziale e finale è sempre quello di far muovere le coscienze e i corpi di chi ci ascolta, non solo da un punto di vista metaforico.
E quella dei testi? Ci sono molte lingue ed anche una lingua inventata.
I testi partono molto spesso da esperienze di vita vissuta dai singoli interpreti del gruppo. Proprio per questo, spesso si parla di amori non corrisposti o lontani, a raccontare metaforicamente una grande nostalgia per i luoghi che si è lasciati alle spalle. Quando il messaggio diventa più corale, come in “Ama la Tierra” o “Tubarè”, le tematiche diventano più sociali e meno riferite al singolo cantante. Ci sono molti vocaboli inventati nel disco, conseguenza di tanti anni passati assieme a storpiare parole straniere diventate bagaglio comune ma anche volontà di trovare un modo per creare un appiglio ai tanti ascoltatori che non parlano arabo o spagnolo, le nostre lingue dominanti, ma che vogliano cantare assieme a noi.
“Ama la Tierra” è il biglietto da visita…
È un brano che parla di disastri climatici, di guerre e di necessità di fermarsi e prendersi cura della nostra casa, della Terra. Un messaggio semplice e sicuramente non innovativo, ma talmente inascoltato che al giorno d’oggi c’è bisogno più che mai di ribadirlo. Noi lo facciamo usando gli strumenti e le sonorità del sub Sahara mischiandole con l’afrobeat, i codici musicali della disco music degli anni ’70 e la lingua spagnola. È una canzone che vuole riempire il dancefloor e allo stesso tempo far ragionare sul nostro tempo: un invito a risvegliare le coscienze per immaginare un futuro più sostenibile
“Tubarè” è il simbolo di questa confluenza di percorsi sonori?
“Tubarè” e forse il brano più corale del disco dove tutti gli elementi di cui abbiamo parlato sono messi insieme. C’è una lingua inventata, c’è un testo in spagnolo di una straordinaria autrice, Diana Tejera, c’è una scrittura musicale che parte da un riff di sax e tromba, si sviluppa in una strofa modale ripetitiva tipica del funk modale sul quale si creano tanti strati per percussivi, ci sono echi del mondo arabo e di musica brasiliana. È esattamente il nostro manifesto che indica una direzione possibile di scrittura futura
Che ci dici di “Africa Romana”?
“Africa Romana” è il nostro modo di omaggiare la musica africana partendo da Roma, mettendo assieme le rimiche e gli stilemi melodici dell’Africa sub sahariana, il mondo pentatonico, le ritmiche binarie e ternarie che si alternano senza soluzione di continuità. Sono gli africani che vivono in questa città da molto tempo che rileggono da qui i codici musicali con i quali sono partiti tanti anni fa. C’è anche un omaggio all’affascinante mondo dei Weather Report, al gruppo di jazz elettrico che dagli anni ’70 in poi è stato punto di riferimento per i tanti musicisti che, come me, dall’Italia hanno immaginato stratificazioni musicali che riproducessero le sonorità più tribali del mondo africano.
Cone nasce “Linda Cholita”, che ingloba stilemi sahariani e mondo autoriale andino?
“Linda Cholita” è un pezzo più cantautoriale, interamente scritto da Carlos Paz Duque, compositore cantante e suonatore degli strumenti della tradizione andina. Suonarlo assieme fin da subito ci ha fatto venire in mente, in questo continuo magma indefinito, che poteva prendere una piega musicale più sahariana e per questo la strumentazione che utilizziamo richiama anche quel mondo apparentemente lontano.
Il brano di chiusura, “Un cantante Sufi”, mette insieme Maghreb e surf rock, ma ha qualcosa da dire sullo stato del Paese…
È un brano che con ironia si prende gioco dei poteri forti, di uno stato di polizia che limita la libertà e i diritti delle persone in nome di leggi inique e ideologiche. Racconta di una storia autobiografica e di un cantante che, scambiato per potenziale terrorista perché nel suo gruppo di lavoro ci sono simpatizzanti per i movimenti estremisti islamici, viene poi scagionato solo perché amante dell’alcool e delle donne. Il peccato come salvezza dalla punizione umana.
BabelNova è stata a Sanremo: cosa ha rappresentato quell’esperienza?
È stata un’esperienza importantissima perché è stato il nostro esordio ed è stata un’esperienza allo stesso tempo molto divertente. Innanzitutto il fatto che un artista del livello di Dargen D’Amico ci abbia coinvolto per le storie che rappresentiamo e per la musica che suoniamo è motivo di enorme orgoglio. Non abbiamo avuto vincoli, abbiamo portato il nostro contributo alla sua versione di “The Crisis” del Maestro Ennio Morricone con grande naturalezza ed è nato con lui un rapporto che non finisce lì ma che un domani potrà portarci a qualcosa di nuovo assieme. È stata anche molto divertente perché, da pesci fuor d’acqua quali eravamo in quel contesto, abbiamo vissuto tutta l’esperienza sanremese senza eccessivi stress e senza quelle ansie che rendono il mondo del mainstream così difficile e compromettente.
Vorrei utilizzare questa tua domanda per fare una riflessione più ampia e non riferita esclusivamente a BabelNova. In questi ultimi anni gli spazi per chi fa una proposta musicale come la nostra sono molto diminuiti, si sono ridotte le economie e i margini di rischio dei promoter che organizzano Festival alternativi al mainstream. Il supporto della politica ai movimenti musicali che non basano la loro esistenza sul profitto e sulla rincorsa ai numeri in classifica viene sempre meno. Un sistema culturale equilibrato culturale deve prevedere non solo la vendita e la commerciabilità dell’arte come elemento per la sopravvivenza delle tante realtà associative e delle mille strutture che faticano un anno intero per organizzare un Festival di una settimana. Qualche anno fa un organico di 10 o 12 elementi trovava più facile interlocuzione, oggi un promoter quando pensa a numeri così grandi si spaventa e guarda altrove, restringe, riduce organici e mezzi a disposizione. È normale, è la conseguenza diretta di un modo di pensare che mette al centro solo il grande evento, la visibilità mediatica, social e televisiva. Sei i numeri che fai, non la musica che proponi. Io trovo che ci sia ancora un forte interesse da parte del pubblico verso forme musicali come la nostra, verso il folk, verso le musiche tradizionali; ultimamente sono nate tante bellissime realtà regionali che valorizzano i patrimoni musicali italiani. Esiste una larghissima fetta di pubblico composta non solo da capelli bianchi ma anche da tantissimi giovani a cui piace sentire altra musica che non sia quella che l’algoritmo gli propone attraverso playlist impacchettate, ma senza l’attenzione da parte di chi governa e gestisce le risorse, l’omologazione avrà meglio appiattendo gusti e sensibilità. Sarebbe ora di invertire questa tendenza. Noi ci proveremo ancora.
Ciro De Rosa e Daniele Cestellini
BabelNova Orchestra – Magma (Maladisco/ Ipe Ipe Music, 2024)
Le premesse sono ottime e gli elementi migliori sono presenti: di carattere musicale, ovviamente, ma anche, più in generale, artistico-politico. Come abbiamo letto nella corposa intervista, BabelNova Orchestra è qualcosa di più che un progetto legato alla necessità: è una soluzione artistica, sonora, culturale che si frammenta e ricompone dentro l’idea della banda multietnica, per rinascere e lanciarsi verso una traiettoria che ha a che fare con la creatività diretta, piena. Un programma che, nella destrutturazione dell’immagine etnica da cui prende spunto e si rielabora, fa propria una prerogativa che, in altri contesti di produzione musicale, daremmo per scontata, per naturale. Si tratta dell’immagine di una banda di musicisti che fa propria e propone in musica la dimensione di un’ispirazione multipla, che trae spunto da un contesto attraversato da stimoli diversificati. Vale a dire un contesto in cui la musica è trattata come un linguaggio che riflette la composizione articolata, aperta e orizzontale di una compresenza sì multietnica ma stratificata e strutturata. Insomma una dimensione che lavora meno sulla sua rappresentazione – lavoro che ha avuto (scriviamolo) un ruolo fondamentale nella definizione e nel riconoscimento, anche politico, di una produzione espressiva articola e pienamente riflessa nella contemporaneità – e che lascia agli esiti, cioè alla musica, il compito di riflettere il processo che la sorregge. In questo quadro, ciò che colpisce – come, d’altronde, emerge in più passi dell’intervista – è la forma che assume l’album d’esordio di questa nuova orchestra, dal titolo irriducibilmente evocativo “Magma”. L’album non poggia su modelli grammaticali di “effetto etnico”. Al contrario, sebbene siano presenti stili, ritmi e strumenti di differenti contesti musicali, raccoglie una lunga narrazione originale. Proviamo a spiegarci meglio, perché, in buona parte, è una questione di interpretazione e i dati a disposizione potrebbero rimandare, di fatto, a significati differenti. Partire dal presupposto dell’interpretazione etnica non è del tutto sbagliato: abbiamo difronte un album costruito su una scaletta di dieci brani cantati in lingue diverse, suonato con strumenti eterogenei e attraversato da suggestioni (non solo ritmiche) molto varie: dalla cumbia al jazz, dal rock al pop e fino al dub. Interpretare, però, questa convergenza attraverso un filtro che riconosce il concetto di multiformità – e quindi di compresenza, convergenza, complessità reale, convivenza strutturale – ci porta a considerare “Magma” in termini meno rigidi. E, per questo, meno affetti da un vizio di forma che tende ad ancorare la world music a una dimensione locale, a dispetto del termine che la rappresenta sul piano internazionale. Ancorata a una dimensione che, non solo in termini di espressione artistica ma soprattutto di politica culturale, mantiene il suo carattere – in un certo senso il suo vigore – marginale: insomma, rimaniamo in sospensione nel flusso dell’esotico, dell’estraneo. Da qui proviene quell’idea condivisa che, solo passando per il tramite delle espressioni musicali (sempre originali, affascinanti, sbalorditive: diverse) si può penetrare il guscio dell’ascoltatore contemporaneo e globale. Allontanandosi da questa immagine e ribaltando, per quanto serve e può servire, il paradigma, si può, invece, comprendere a pieno il ragionamento che sorregge le parole di Pino Pecorelli. Il quale, nella lunga intervista che ci ha concesso, insiste sulla necessità di evitare la predeterminazione, rifuggendo le casistiche che oggi risultano, di buon grado, non più convincenti. Da qui traiamo, pertanto, le nostre conclusioni. L’album “Magma” è il programma di BabelNova e viceversa: non si tratta più di riconoscere – e implementare, rimodulare, codificare – il localismo. Si tratta di apprezzare la realtà della molteplicità e godere dei dialoghi plurali che esprime.
Daniele Cestellini
Foto di Giovanni Canitano (2-3) e di Roberto Moretti (4, 5, 6, 7, 8, 9 e 10)