Jim Abbott, Jackson C. Frank, La luce chiara e dura del genio, Gian Carlo Pandolfi, 2024, pp. 272, Euro 17,50

Un grande plauso a questa coraggiosa traduzione italiana, curata dallo scrittore/musicista underground lombardo Gian Carlo “Karl Lee” Pandolfi, di un volume di memorie pubblicato dieci anni fa da Jim Abbott. Un libro importante che colma una lacuna, regalando informazioni di prima mano sul secondo periodo della vita di Jackson C. Frank (1943 - 1999), trascorso in America e prevalentemente distante dalle scene musicali. Il testo dona un minuto di visibilità al cantautore statunitense, la cui vicenda discografica si svolse nella Londra degli anni ‘60, all’interno della primavera del folk revival anglosassone. Solamente un attimo di luce a fronte della scurissima vicenda di un nome che, se non propriamente sconosciuto, di certo viene ricordato molto meno di quello che meriterebbe. A dimostrazione di come la sfortuna che lo perseguitò sadicamente da bambino e con inspiegabile pervicacia nel corso del resto dell’esistenza, sembra destinata a non placarsi. Una terribile “nuvola nera” che non si dissolverà mai, fino a trasformarlo in uno dei più pietosi casi umani dell’intera storia musicale moderna. Alla fine della lettura di queste dense e appassionate 270 pagine resta l’amarissima sensazione di avere guardato attraverso il buco della serratura del tempo. Eppure Jackson era dotato e carismatico, aveva un viso gentile e tondeggiante, da sembrare in certi momenti un qualche antenato di un Leonardo di Caprio giovane. Seppur zoppo e deturpato dai raggrinziti sfregi lasciategli dall’incendio della scuola infantile di Cleveland Hill, che il 31 marzo 1954 aveva ucciso quindici dei suoi compagni durante la lezione di musica. Per le cure esistenti negli anni ‘50 del secolo scorso, si sarebbe potuto considerarlo una specie di “miracolato” dopo le ustioni di primo, secondo e terzo grado che lo colpirono in più di metà del corpo. La costante temperatura di 42°C per un lungo periodo e le infezioni conseguenti alle bruciature non contrastate dal sistema immunitario compromesso, gli concedevano ben poco scampo. Oltre alla somministrazione di farmaci potenti, fu posto in un letto ghiacciato per contenere la febbre ma quelle condizioni purtroppo favoriscono danni celebrali. Disperando di salvarlo, Jackson venne “utilizzato” anche come “caso clinico da studiare per il futuro”. Nonostante tutto ciò riuscì a scamparla grazie alla sua forza di volontà. Spesso portava dei guanti, avendo mani dalla pelle cicatrizzata che minacciava in continuazione di restringersi ma le loro capacità di precisione melodica nel “finger picking” avevano del prodigioso, a dispetto di muscoli e ossa irrimediabilmente compromessi. 

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