Aveva soprattutto un talento artistico cristallino che andò in parte sprecato a causa di un autodistruttivo “senso di colpa del sopravvissuto”. Non è neppure ipotizzabile dove sarebbe arrivato se soltanto avesse goduto di pace interiore e di una vita più “ordinata”. Se avessero taciuto quelle implacabili voci celate nella sua testa e quei démoni non lo obbligassero a sperperare scelleratamente, i centomila dollari di rimborso ricevuti dall’assicurazione al compimento della maggiore età. Possedeva anche una bellissima voce baritonale, a differenza di vari altri cantastorie, dotati più musicalmente che vocalmente. Unita al dono di una scrittura di prim’ordine, colta e raffinata che lo aveva indotto inizialmente a lavorare presso giornali e a cimentarsi in prosa e poesia, quando ancora la carriera musicale non eran inclusa tra le sue opzioni. Varie sono le prove rimaste di questa elevata qualità, nonostante la bipolarità e i ripetuti disagi schizofrenico-paranoidei che lo perseguitarono. Nella seconda parte dell’esistenza vivrà molti anni per strada, inerme e indifeso davanti a ogni imprevisto, molti altri li trascorrerà in istituti psichiatrici. Ma cercò anche, quando poteva, di cavar fuori qualcosa di buono dalla sua arte, il testo di una canzone senza titolo, rimasta inedita, recitava: “Devastato da venti improvvisi, per strada, da solo un’altra volta...sono stato in una prigione fatta di anni...il tempo non se ne vuole andare...non posso credere a quello che mi hanno fatto”. Con un giobbesco spirito di sopportazione, che probabilmente avrebbe annientato chiunque, sopravvisse molti anni grazie alle premurose attenzioni soprattutto dell’autore di questo libro, Jim Abbott (che sacrificò per lui anche il suo stesso matrimonio). Alla fine cederà, indigente, seppur con un tetto sopra la testa, all’età di cinquantasei anni, senza aver mai visto il suo unico disco pubblicato negli Stati Uniti. Ma questo crimine culturale non è altro che una irrilevante sciocchezza nella sua vicenda esistenziale e probabilmente era l’ultima delle preoccupazioni in mezzo a tanta sconsideratezza e patimenti. A Londra giunse nel febbraio del 1965 assieme alla fidanzata Kathy Henry che poco dopo gli annunciò di aspettare un bambino che nessuno dei due voleva, tornarono quindi indietro dove le fu praticato un aborto illegale e quando ripartì per Inghilterra a giugno, era da solo. In quelle affascinati e lontane scene folk londinesi diventate oramai storia, lo frequentarono e conobbero da vicino, artisti che diventeranno poi famosi, come Paul Simon, Al Stewart, Sandy Denny, Tom Paxton, Bert Jansch, Donovan, Heather Wood, Art Garfunkel, Roy Harper, John Renbourn. Tutti autori prolifici e ben documentati discograficamente, Jackson C. Frank di dischi ne realizzò solamente uno anche se per la major Columbia. Romantico e crepuscolare, pagato e fortemente voluto da Paul Simon, anch’gli transfugo a Londra dal 1964, in cerca di maggiore accoglienza dopo l’insuccesso americano dell’esordio “Wednesday Morning, 3 AM”. Qualcuno ha paventato esistesse fin da subito, una comune preoccupazione a riguardo le condizioni fisiche di Jackson e il timore che del suo talento potesse non rimanere alcuna testimonianza registrata. I cantanti tradizionali che si esibivano all’epoca nei piccoli e fumosi club della capitale, erano gli ultimi a venire considerati nel mondo musicale. Talmente squattrinati che a Bert Jansch dovevano prestare la chitarra, poiché gliela avevano rubata e non ne possedeva neppure una. La loro scena era intima, si svolgeva perlopiù nel quartiere bohemian di Soho e in particolare al Club Les Cousins di Greek Street. Ma quella era anche la stagione della “Swinging London” e della “beatlemania”, Dylan aveva appena acceso la spina pubblicando metà "Bringing It All Back Home" con la chitarra elettrica. Londra era attraente, nel novembre precedente era giunta anche la cantante afro-californiana Dorris Henderson (che avvierà una proficua collaborazione con John Renbourn) e contemporaneamente a Jackson arrivò anche Tom Paxton che già aveva inciso per la Elekra Records. Jackson, grazie al rimborso assicurativo, sfoggiava auto di lusso e soprattutto stringeva tra le mani una chitarra originale Martin (un sogno per chiunque altro) ma, grazie alla sua generosità, tutti lo ammiravano e rispettavano. Quando incise il disco, la sua fidanzata di allora Sandy Denny, si trovava nello studio con lui, l’aveva incontrata da poco al Bunjies Folk Club, era ancora un’infermiera che amava esibirsi ogni tanto, spiritata, umoristica e dotata di una voce fantastica. Lui cercava di convincerla a lasciare tutto per il canto, nessuno, in quel momento, avrebbe potuto immaginare che quello sarebbe stato il primo ma anche ultimo disco di Jackson, che l’oscurità avrebbe prevalso sul talento. Improvvisamente, proprio durante le registrazioni, iniziarono ad apparire i chiari segni dei suoi latenti disagi psichici che lo costringeranno all’inizio dell’anno seguente, a recarsi per un consulto presso il St. John’s Hospital di Lincoln. Sperperati in fretta tutti i soldi, prenderà la decisione di tornare negli Stati Uniti, lasciando al banco dei pegni le chitarre per potersi pagare il biglietto di viaggio. Il disco aveva venduto appena cinquemila copie ma tutti i nascenti cantautori lo conoscevano e ne apprezzavano la genialità, soprattutto il fatto che le canzoni fossero autobiografiche, cosa non certo frequente per l’epoca. John Peel lo trasmetteva frequentemente nel suo programma radiofonico BBC. Nella melodia della canzone di apertura “Blues Run The Game” si respira l’atmosfera della grande città che ritroviamo in tanti ottimi pezzi del Ralph McTell d’inizio carriera. In anni più vicini a noi, la interpreteranno Eddi Reader, Counting Crows o Mark Lanegal ma in quella lontana primavera di metà anni ‘60, le canzoni di Jackson profumavano dappertutto nell’aria musicale folk londinese. Nonostante l’autore avesse dichiarato che i muri gialli di “Yellow Walls” appartenevano alla sua vecchia casa, risulta più veritiero fossero piuttosto quelli della convalescenza ospedaliera al Meyer Memorial Hospital, nell'East Side di Buffalo, New York. Le strazianti strofe narrano infatti degli incubi che lo braccavano e dell’immagine ricorrente della sua sventurata fidanzatina Marlene Dupont, perita nell’incendio (“...non riesco a catturare l’ombra, questo sono io che corro nudo attraverso la morte di un mare senza sale, nessuno mi conosce...ti vedo fatta di luce di cristallo, ti vedo correre senza muoverti…”). In quest’unico brano lo accompagnerà alla seconda chitarra un giovane Al Stewart, senza peraltro venire citato nei crediti. Un’altra canzone del disco ritrae la faccia nascosta del carnevale dove tutti appaiono apparentemente felici, le cronache raccontano che neppure Bert Jansch, che era il più abile (uno che Neil Young definirà “il Jimi Hendrix della chitarra acustica”), riusciva a riprodurre fedelmente “My Name Is Carnival”. Lo inciderà, nel suo personale e affascinante stile, per la prima volta trentatré anni dopo come pezzo di apertura di “Toy Balloon” (1998), inserendolo da allora, spesso nelle scalette dei concerti. E nel 2009 il gruppo di Erland Cooper, cantante delle Orcadi scozzesi, adotterà addirittura il proprio nome traendolo da questa canzone di Jackson. Una canzone che esplora confusione e festosa soddisfazione di vivere, traccia l’immagine vivida di colori, suoni e luci sfavillanti tra risate e giostre ma suggerisce anche il carnevale come metafora della vita, con suoni alti e bassi, attimi di gioia ma anche di dolore. “Blues Run The Game” divenne presto un vero e proprio standard della scena folk, rimase sempre per Bert Jansch, un cavallo di battaglia nel corso dell’intera sua lunga vita artistica, immancabile nei concerti e presente in numerose registrazioni. Ma la ritroviamo anche in vecchi solchi di Simon/Garfunkel, John Renbourn, Julie Felix, Martin Simpson, Wizz Jones, Sandy Denny, Jake Walton. Perfino Nick Drake la suonava, come testimoniato dai nastri domestici “Tanworth-In-Arden 1967/68” pubblicati dopo la sua scomparsa. Anche se un compilatore disattento assegnerà erroneamente, in quella prima edizione del dischetto pirata italiano (1994), la paternità di due brani di Jackson, uno a John Renbourn e l’altro a Drake stesso. Purtroppo un po’ tutta la scaletta di quel fortunoso reperto è costellata di errori madornali, con brani attribuiti a Drake mentre risultano composizioni dei vari Dylan, Van Ronk, Jansch...perfino tradizionali come “Winter Is Gone” o “All My Trials”. All’orrore però non c’è mai fine, in quanto in una seconda edizione di poco seguente, le disattenzioni nei crediti aumenteranno ancor più coinvolgendo finanche numerosi titoli: “Blues Run The Game” ad esempio, si trasformerà inspiegabilmente in “Sunday Baby”. Fortunatamente in seguito, tutto si ricomporrà correttamente all’interno di “Family Tree” (2007), disco ufficiale veramente importante poiché ci permette di trarre questa deduzione: d’accordo che i vinili negli anni ‘60 non permettevano ampi spazi temporal-sonori rispetto a un cd odierno ma il fatto che ben quattro pezzi (su un totale di dieci) provenissero da Jackson C. Frank, testimonia da sola la considerazione che Nick Drake (prima del suo esordio epocale di “Five Leaves Left”), riservava all’autore di quelle piovose, introverse e lunatiche ballate. L’interpretazione della malinconica “Milk And Honey” pare quasi addirittura anticipare tratti del suo capolavoro seguente “Day Is Done” grazie a soluzioni musicali similari; pure nelle bucoliche liriche, le due canzoni condividono medesimo senso di accettazione di dolore, perdita e trascorrere del tempo, oltre ai riferimenti alle stagioni (ma questo risulterà abbastanza frequente nelle canzoni di Drake). Jackson dichiarò di aver tratto stimolo dal famoso tradizionale ferroviario “’3:10 To Yuma”. La stessa Sandy Denny inciderà più volte, un paio di brani di Jackson: “Milk And Honey” in solitaria e “You Never Wanted Me” anche con i Fairport Convention. Inoltre, pur caratterizzandola ripetutamente dei minacciosi elementi acquatici spesso presenti nei suoi testi e senza mai nominarlo, è alquanto credibile che si stesse riferendo proprio a lui nella canzone “Next Time Around” che apre il lato B del suo “The North Star Grassman And The Ravens” (1971) (“poi venne la domanda e riguardava il tempo, la risposta tornò indietro ed era lunga...ma che cosa è stato del suo talentuoso figlio che mi scrisse un dialogo in una canzone? mi dicevi sempre di essere solo...vivi ancora laggiù a Buffalo?...mi sembra di ricordare la faccia e il nome ma se non sei tu, non è importante, conosco i cambiamenti…”). Sembrerebbe proprio una risposta alle frasi di “Dialogue” di Jackson: “Vorrei stare solo, ho bisogno di toccare ogni pietra di fronte alla tomba in cui sono cresciuto...i cambiamenti che non dovevano succedere trascinano le ore nel mio ricordo, cantami una canzone d’amore che dica - non devi mai, mai restare solo…” Dopo il ritorno in America, nonostante le sue condizioni, Jackson sposò l’affascinante e bionda modella Eliane Sedgwick che aveva conosciuto a Londra e che lo aveva seguito, partecipò alla “Summer Of Love” del 1967 ma la moglie purtroppo subì ben presto un aborto spontaneo. Contribuì a far suonare a Woodstock musicisti londinesi, lontanissimi tra loro ma ugualmente straordinari quali i Soft Machine di Robert Wyatt e The Young Tradition. Scrisse nuove canzoni, la moglie fu di nuovo incinta, partorì un maschio che visse appena dieci ore a causa di una rarissima malattia congenita. La botta emotiva fu terribile, Jackson prese la decisione di dirigersi nuovamente verso Londra e i suoi vecchi amici, ebbe occasione di esibirsi ancora meravigliosamente ma in breve tempo anche l’angoscia ricomparve, devastandolo. Viveva di espedienti finché il governo inglese gli notificò di non gradire che uno straniero “prossimo all’indigenza” rimanesse sul suono britannico. Tornò quindi definitivamente negli Stati Uniti dove a fine gennaio del 1969, Elaine partorirà finalmente una bambina sana, Angeline, ma ciò mandò definitivamente in frantumi il matrimonio, a causa delle evidenti inaffidabilità di Jackson. Venne cacciato di casa in attesa di divorzio e per proteggerla, la madre iniziò a riferire alla piccola che il papà era “morto”. A quel punto Jackson solo, sul lastrico, senzatetto e disabile, iniziò ad avere comportamenti non solo autodistruttivi ma anche socialmente inaccettabili, venne più volte arrestato, rinchiuso in reparti psichiatrici di manicomi e istituti vari. Nei periodi in cui assumeva regolarmente i farmaci, ogni tanto qualcosa lo stimolava a suonare, come a metà del 1972 o nel maggio 1974 quando scrisse un pugno di nuove canzoni poeticamente sopraffine, che avrebbero dovuto comporre il suo secondo album. Pur registrandole in studio, non si preoccuperà poi neppure di andare a ritirare i nastri che rimarranno non pubblicati per quasi quarant’anni. A dispetto delle sue condizioni generali, sorprendentemente, le sue lucidità e immaginazioni musicali sembravano rimanere miracolosamente inalterate. Tra queste canzoni “Marlene” manifesta un eccelso, ennesimo tentativo artistico di esorcizzare la tragedia “...il pavimento della palestra, la porta bordata in ottone...i miei amici nei bar vedono solo le cicatrici...il suono del tuo tamburello mi perseguita ancora...ballammo come due fiocchi di neve, fammi un favore Dio, non lasciar entrare Marlene”. Dimostra però anche inequivocabilmente, che ogni singola immagine della straziante apocalisse che aveva vissuto da bambino era rimasta cristallizzata e indelebile nella sua memoria. Che l’incendio aveva continuato a bruciare e a produrre effetti nefasti durante l’intera sua vita, che l’irrisolvibile senso di colpa gli gravava sulla testa e lo annientava continuamente com’era stato per il grande poeta di Bucovina, Paul Celan. In quegli anni sia Art Garfunkel prima che Al Stewart poi, lo cercarono, incontrandolo ma ricavandone impressioni sconfortanti. Nel frattempo in Inghilterra, la canzone “Blues Run The Game” ricompariva all’interno del cofanetto quadruplo antologico Transatlantic “Electric Muse: The Story Of Folk Rock” (1975) nella sezione “Blues Baroque And Beyond”. Il suo disco venne anche interamente ristampato nel 1978, cambiando titolo (“Jackson Again”), immagine di copertina e rimuovendo il nome di Paul Simon come produttore. Ma ancora una volta, i riscontri commerciali furono insignificanti, determinando altri vent’anni di silenzio. Jackson nel frattempo viveva lunghi periodi per strada, da fantasma, cibandosi disordinatamente, claudicante e accattone, senza denti e senza voce a causa anche della continua assunzione di nicotina della peggior specie. Ciclicamente veniva preso in carico dai servizi sociali, rinchiuso, reinserito, rilasciato e tutto ricominciava come prima. Nei momenti di lucidità in cui era curato dagli psicofarmaci, scriveva canzoni strepitose: “Dove la strada diventa muro, lo spettro cade dentro...qui nell’oscurità si diffonde il suo arcobaleno nero...lo spettro non aveva cibo, era colpevole...non era avido, ricorda di essere stato un uomo...” (“The Spectre”). Poi un giorno mentre era seduto da solo su una panchina, un gruppo di ragazzini, solo per il divertimento di colpire un barbone, gli sparò un colpo di pistola a piombini nell’occhio sinistro, in mezzo all’indifferenza generale. Perse così per sempre anche metà della vista. Nell’estate del 1994 Jackson decise di registrare sei nuove canzoni nonostante l’obesità di oltre centotrenta chili, un probabile enfisema polmonare e un corpo che riteneva “una prigione” come riferito nel libro da Abbott. Altre ne registrerà nel nastro cosiddetto “The kitchen table demos” (tutte ascoltabili nella doppia compilation Castle pubblicata nel 2003). Nel 1996 Jackson, sbadatamente, quasi diede fuoco alla suo appartamento, venne dichiarato perciò “pericoloso per sé e per gli altri” e conseguentemente rinchiuso all’ospedale psichiatrico Benedectine di Kingston per svariati mesi, finché non ci fu necessità di “liberare” un posto letto. A quel punto Jim Abbott ne divenne ufficialmente tutore legale. Fece a tempo a fargli incontrare i vecchi amici John Renbourn e Robin Williamson (della Incredible String Band) di passaggio, in concerto in duo, all’Università di New York (il repertorio era quello documentato nel CD “Wheel Of Fortune” di tre anni prima). Ma la mente di Jackson oramai lo stava abbandonando sempre più, una polmonite combinata a un arresto cardiaco metteranno la parola fine alla sua triste vicenda terrena, a Great Barrington il giorno 3 marzo del 1999. Quest’uomo ha vissuto all’interno di una tale serie di pene psico-fisiche, che in effetti il suo tempo sarebbe da ritenersi più breve, decurtato di un considerevole numero di tribolatissimi anni e costellato di “così tante tragedie e solamente una vita per contenerle tutte” per citare la frase conclusiva del volume. All’epoca della cui scrittura, l’autore era a conoscenza dell’esistenza di altre canzoni mai registrate, di alcune cancellate per errore, di altre perdute chissà dove. Di una di queste “Joshua”, l’appena defunta Heather Wood, ha riferito “fosse stata dimenticata ma originariamente scritta per l’interpretazione degli Young Tradition” (cosa che purtroppo non avverrà mai). La sezione finale del libro riporta la preziosissima trascrizione effettuata da Jim Abbott dei testi di quelle annotate sui quaderni di Jackson, rinvenuti dopo la sua scomparsa. In una delle quali, che mai ascolteremo, “Angel Of Night”, Jackson sembra indicare la sua lapidaria conclusione “Il tempo ha un modo di appendere tutto a un chiodo”. La storia spesso riserva l’oblio a quelli che “non ce l’hanno fatta” ma ogni vicenda, anche musicale, si nutre delle tracce dei tanti altri travolti da qualcosa, magari anche da se stessi. Perché è indubbio che gli indelebili sfregi su viso e mani erano perfino poca cosa rispetto a quelli rimasti nella sua povera mente offesa. Giustamente, si ritiene sventurata l’avventura umana di figure che molto amiamo, quali l’angelico Nick Drake, ma come definire quella di Jackson C. Frank!?
Flavio Poltronieri
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