Non può sfuggire ai nostri radar, sempre sensibili ai progetti generati nell’isola sonante, “Suite”, l’ultimo lavoro del produttore e live performer di musica elettronica Francesco Medda “Arrogalla” (frammenti, pezzettini o rottami in lingua sarda), viaggiatore sonico che riversa nella sua estetica trasversale una vasta mole di materiali raccolti sul campo. La sua attitudine sghemba lo ha condotto a numerose collaborazioni, tra le quali qui segnaliamo quelle con Michela Murgia, Giacomo Casti, i Malasorti, Carlotta Vagnoni, Davide Toffolo, Gavino Murgia, Elena Ledda e Mauro Palmas. “Suite” è stato pubblicato in primavera dalla storica etichetta indipendente La Tempesta Dischi nella sezione SUR dedicata alle musiche dal mondo. “Le mie radici sono l’hip hop e la musica tradizionale sarda, ma anche la dance music che ascolto dagli anni ’80. Ho identità multiple e suono cose che rispecchiano ciò che sono”, spiega Arrogalla. Concepita in un’unica traccia, “Suite” sviluppa una densa tessitura stratificata di elettronica, dub, cumbia, musica tradizionale sarda e field recordings. All’album hanno contribuito Pier Gavino Sedda dei Tumbarinos di Gavoi, il Cuncordu e Tenore de Orosei, Su Cuntrattu Seneghesu, Francesca Romana Motzo (clarinetto), Mauro Palmas (mandola), Pierpaolo Vacca (organetto diatonico), Maurizio Floris (sassofono contrabbasso), Francesca Romana Motzo (clarinetto), Massimo Loriga (trunfa e gaita marciana), Maurizio Marzo (chitarre) e la reggae band Ratapignata. La partitura illustrata da Carol Rollo, racconto per immagini della composizione dell’opera, è il valore aggiunto del progetto di cui abbiamo parlato con l’artista sonoro di Quartu Sant’Elena.
Rapporto strettissimo. La musica tradizionale e l’improvvisazione hanno sempre risuonato per Quartu Sant’Elena a qualsiasi ora del giorno e della notte. Nelle cantine o in piazza. Launeddas e canti che accompagnano le processioni religiose. La gara poetica accompagnata dalla chitarra o da bàsciu e contra. Dopodiché, usandola anche nei miei processi creativi, mi sono proprio appassionato a tutta la musica tradizionale dell’Isola, che varia insieme al paesaggio, e che rappresenta, per me, un arcobaleno di bellezza. Sin da piccolo sono sempre stato rapito dai suoni di Mauro Palmas, Elena Ledda e Luigi Lai, arrivando a collezionare tutti i loro dischi o mp3, che ascoltavo insieme all’hip hop americano, al dub giamaicano e alla techno, musiche che risuonavano nel mio quartiere allo stesso modo della musica tradizionale.
Suoni strumenti tradizionali?
Solo ‘sa trunfa’ (lo scacciapensieri). Mi sarebbe piaciuto imparare a suonare le launeddas e le percussioni; per queste ultime posso recuperare perché da qualche mese ho un tumbarinu (tamburo tradizionale gavoese), mentre per le launeddas serve una vita per imparare e crescere con lo strumento.
Ti va bene la definizione di artista sonoro?
Sì, sono un artista che lavora col suono, che cerca di scolpirlo, di trasformarlo, creando relazioni e cortocircuiti a prescindere dal materiale di partenza, e concentrandomi sulle caratteristiche morfologiche del suono, lavorando tantissimo sulla consapevolezza nell’ascolto.
Quale l’idea dietro “Suite”? In cosa si differenzia da esperienze del passato?
La “Suite”, di nome e di fatto, è un inno al mimetismo e alla resistenza delle culture minoritarie. È stato fondamentale il pensiero di Antonio Gramsci. È un’opera post coloniale, è un’opera di musica contemporanea fatta di stratificazioni con materiali provenienti da mondi sonori radicalmente diversi che, attraverso la mediazione, convivono in armonia. Gli elementi sono la cumbia del sud America, l’hip hop e il dub, la musica elettronica e contemporanea, i paesaggi sonori e la musica tradizionale della Sardegna. In particolare ci sono i Tumbarinos de Gavoi che hanno dato la struttura portante dell’opera ma anche le voci del Cuncordu e Tenore de Orosei, di Su Cuntrattu Seneghesu e di cantrici anonime di Bitti e Nulvi; e i suoni degli strumenti di Mauro Palmas, Pierpaolo Vacca e Massimo Loriga. Per crearla ci ho messo tre anni di lavoro e almeno otto anni di studio anche perché io manipolo solo materiali che conosco intimamente. Ho tagliato campioni cumbieri e li ho legati con campionamenti sardi e suoni elettronici ottenuti attraverso la rielaborazione dei campioni stessi. Ho inserito il ballo dei tumbarinos e ho fatto registrare il sax contrabbasso per dare una dimensione acustica alle basse frequenze. Ho inserito i paesaggi sonori e registrato il clarinetto di Francesca Romana Motzo per creare un ponte tra i paesaggi sonori e l’elettronica e poi, via via ho aggiunto via via tantissimi altri materiali sino a creare un’unica drammaturgia mutevole e multi-stratificata! È la prima volta che lavoro in questo modo, anche perché in genere lavoro di sottrazione, in un processo molto simile alla scultura. In questo caso ho creato centinaia di loop che univano tutti gli elementi che ho elencato e che ho combinato in modo casuale e mixato per dare valore in primis ai timbri, mettendo insieme elementi in maggiore e minore, armonie oggettivamente sbagliate, accordature diverse e contemporaneamente ritmi in sei ottavi, quattro quarti e irregolari. La cosa bella è che ai concerti ognuno balla come vuole scegliendo il proprio tempo all’interno di questa poliritmia. Data questa complessità, con La Tempesta, la casa discografica che ha pubblicato il lavoro, ho deciso di pubblicare, anziché un disco fisico, di la partitura dell’opera, illustrata da Carol Rollo, che ha trasformato ogni loop in una illustrazione definita in modo che fosse visibile e tangibile la visione di questa stratificazione, anche se al termine di questo processo oltre che una partitura ci siamo ritrovati
anche una graphic novel lunga tre metri! Che io sappia al momento non ci sono altri lavori così, almeno legati al mio mondo. Un’altra cosa fondamentale è che non ho utilizzato sintetizzatori e plugin ma solo campionamenti e registrazioni.
Come hai scelto i “Paesaggi sonori” da esplorare? Non sei stato solo in Sardegna…
I paesaggi sonori gli li ho scelti in base alle caratteristiche morfologiche del suono stesso, cercando di combinarli insieme agli altri suoni. Poi ovviamente i paesaggi ti riportano nei luoghi che hai vissuto attivando ricordi, immagini e odori. Dall’inizio alla fine della Suite ci sono almeno due paesaggi sonori sovrapposti, uno rappresentato da registrazioni sul campo fatte in Sardegna, Sicilia e Africa (nella partitura c’è l’elenco dei luoghi), l’altro dalla musica che ho registrato nei ‘matatu’ keniani, i mezzi di trasporto pubblico che oltre che trasportare persone sono di fatto dei soundsystem mobili che trasmettono musica ad altissimo volume, kapuka, hip hop, r’n’b, dancehall, reggae, afrobeat, reggaeton, funk, techno, pop e gospel. Tutte queste musiche registrate lì dentro le ho messe a tempo con tutto il resto, creando di fatto un'altra drammaturgia nascosta che ogni tanto fa capolino.
Con quale equipaggiamento tecnico hai registrato? Hai cercato specifiche condizioni ambientali?
Ho registrato tutto io con un registratore Marantz Professional PMD661, con un microfono stereo AudioTechnica BP4025, i mercati con i microfoni binaurali Soundman OKM che ti consentono una mimetizzazione oltre che una resa perfetta, altre volte invece col cellulare. Sono capitato nei luoghi a volte per caso, altre volte sapendo bene cosa avrei trovato a livello sonoro, però quando si registrano i paesaggi sonori la cosa più importante è il qui e ora e lo stare in un ascolto quasi meditativo.
I producer, i DJ manipolano schegge di suoni, frammenti, campionamenti di voci e strumenti. Non c’è il rischio di azzerare le storie, le vite, le funzioni sociali che ci sono o c’erano?
Un campionamento, un remix, una version non azzererà mai la fonte originale: la rielaborazione onesta genera sempre qualcosa di nuovo, che condivide con l’originale solo il punto di partenza. Secondo me non esiste il problema. Il problema è un altro: le motivazioni dell’utilizzo, perché anche se è vero che l’arte vive di furti, di appropriazioni indebite e di prestiti, la consapevolezza dovrebbe essere fondamentale. Per me bisogna conoscere quello da cui si sta attingendo ed evitare come la peste l’uso esotico dei suoni che al contrario molto spesso accade. Il valore aggiunto di una composizione non deve essere la particolarità esotica o il sapore speziato di alcune parti, ma la relazione che si crea tra gli elementi. Anche a seconda dell’area geografica di ascolto, cambia questa percezione. Per questo motivo ho lavorato tantissimo sul mimetismo, cercando di annullare le singole appartenenze o cercando di renderle in un certo senso trasparenti. Nel disco, ad esempio, ci sono le voci di due cantrici anonime di Bitti e Nulvi degli anni Cinquanta che eseguono dei ‘duru duru’; a queste voci ho applicato l’autotune alla maniera dei Berberi per dare loro una dimensione spirituale ultraterrena e le ho mixate su beat dove convive convivono dub roots, elettroacustica, cumbia e tumbarinos. Alla fine il risultato è straniante e se non sei ferratissimo con i sui suoni della Sardegna, quel mix potrebbe portarti da altre parti. Comunque sia, a meno che non si tratti di remix o registrazione realizzate da me o per me, in generale rielaboro così tanto i materiali che la sorgente di partenza diventa irriconoscibile; quando i materiali sono invece evidenti
Che ruolo ha la parola in questo lavoro?
Fondamentale. La poesia è la principale forma d’arte letteraria della Sardegna e in questo lavoro le ho voluto dare un grande valore inserendo le poesie cantate da Pier Gavino Sedda e dai Tumbarinos de Gavoi (alcune risalgono al Settecento), dal Cuncordu e Tenore de Orosei, di da Su Cuntrattu Seneghesu e dalle cantrici anonime di Bitti e Nulvi. Poesia che diventa danza.
Entriamo nel tuo studio: vuoi spiegarci le diverse fasi del tuo lavoro?
Questa domanda è difficile: non ho un metodo standard, lavoro in modo frammentario in tantissimi posti diversi, in primis a casa nostra a San Gregorio in simbiosi con Ines, la mia compagna e i nostri figli, poi lavoro bene a Valledoria, al centro della costa nord della Sardegna, poi in treno e all'aeroporto, al mare e nel bosco, sfruttando i ritagli di tempo. In genere cerco di produrre una piccola composizione ogni giorno, una buona pratica quotidiana che si concretizza nella creazione di un loop perfetto. Quando ho tanti materiali compatibili li combino e “chiudo” la composizione. Ma il lavoro non finisce qui, una volta che la traccia è finita la ri-suono con le tracce separate applicando effetti, filtri, sottrazioni e addizioni, cercando di dilatarla il più possibile, alla maniera dei dubmaster giamaicani che alla fine degli anni Sessanta inventarono questa pratica che più di tutte ha influenzato il modo di fare musica oggi. Dopodiché, quando ho tutto pronto, vado in studio. Se mi trovo al sud vado a Cagliari al S’Ard Studio di Michele Palmas, se sono al nord vado al Suvitas Studio di Eugenio Caria a Castelsardo, dove integro, mixo, finalizzo e masterizzo grazie all’ausilio di due grandissimi professionisti che arrivano dove io non posso arrivare.
Come nasce l’amore per la cumbia?
La cumbia l’ho conosciuta grazie a Joe Strummer, ai Calexico e a Manu Chao; poi, essendo stato collegato col mondo delle netlabel europee, ho ben presente quando questi suoni, contaminati con l'elettronica, si sono affacciati in Europa, nella prima decade del 2000. Da allora l’ho sempre ascoltata con curiosità, andando a ritroso nel tempo, sino ad arrivare alle origini, e studiandola tantissimo grazie anche all’amicizia con Davide Toffolo e Nahuel? Martinez, fondatori dell’Istituto Italiano di Cumbia. La prima traccia cumbiera l’ho prodotta nel 2018 e pubblicata con La Tempesta Sur, il distaccamento de La Tempesta Dischi dedicato alle musiche del mondo e diretto diretta da Davide Toffolo.
Non c’è niente come la cumbia in Sardegna?
No, perché la cumbia è un qualcosa che unisce tre continenti (Africa, Europa e America) a causa di dinamiche coloniali profondamente ingiuste e sanguinose ma che da queste da cui è scaturita una bellezza unica e mimetica che riesce ad adattarsi nei ai luoghi nei quali arriva. L’unica cosa simile è l’approccio colombiano/andino alle melodie e al modo di combinarle tra loro nell’improvvisazione, molto simile alle ‘nodas’ delle nostre launeddas.
Nel disco compare anche Mauro Palmas con il quale hai suonato spesso dal vivo, oltre a pubblicare il disco "Meigama". Ci parli di questo connubio?
Mauro, compositore e suonatore di liuti, è un gigante della cultura sarda e mediterranea, lo ascolto da quando ero un ragazzino; per me l’ascolto dei Suonofficina è stato fondamentale. Infatti nella Suite l’ho voluto omaggiare con un frammento di “Tadasuni”, una delle sue composizioni più longeve e famose. È un maestro modesto e paritario dal quale ho imparato (e imparo) tantissimo. Abbiamo fatto un disco meraviglioso e tanti progetti musicali insieme, e prima o poi uscirà un disco nuovo!
Pierpaolo Vacca è un bravo musicista e una bellissima persona, innovatore dell’organetto. Con lui ho collaborato tante volte, sia dal vivo, come al festival Time in Jazz di Berchidda, sia nella “Suite”, dove la tutta parte sei è frutto del nostro lavoro comune.
Hai prodotto il nuovo lavoro dei Tumbarinos de Gavoi. Che cosa avete combinato?
Campiono i suoni dei Tumbarinos de Gavoi da più di vent’anni. I balli di Gavoi a tumbarinu, pipiolu, triangulu, tumborro e boghe hanno creato l’ossatura ritmica della Suite. Pier Gavino Sedda in questi anni ha registrato per me voci e decine e decine di strumenti musicali; da quei suoni sono partito, anzi è probabile che la Suite da un altro punto di vista sia un ballo gavoese arricchito da mille suggestioni. Quindi per riconoscenza, gratitudine e amicizia ho voluto restituire tutto questo producendo artisticamente il loro nuovo disco che suona allo stesso tempo tradizionale e contemporaneo, crudo e innovativo, rozzo e profondo, punk e poetico, così come sono loro, l’unica orchestra tradizionale della Sardegna che si può ascoltare a Gavoi nei giorni di festa ma soprattutto a Carnevale.
Recentemente, hai commentato sui social il fatto che una manifestazione ha respinto la tua proposta perché priva di identità. Ci racconti di più?
Sì, mi sono iscritto agli showcase del Medimex per il 2024, per presentare la “Suite”. Non voglio entrare nelle scelte della direzione artistica perché ognunə è liberə di scegliere gli artistə che preferisce. Detto questo, mi ha fatto sorridere la motivazione dell’esclusione: “Tentativo di conciliare la musica dub e il folk senza precisa identità”. Ora, al netto che piaccia o meno il mio lavoro, che è una cosa legittima, questa definizione è stata data a me, che mi occupo di musiche tradizionali e di musica elettronica da più di vent'anni, quindi una definizione così sommaria non credo si possa adattare alla mia attività artistica. Comunque sia non mi sono offeso, mi ha fatto sorridere perché la Suite viene utilizzata all’Università nei corsi di etnomusicologia e fa ancora più ridere perché la Suite, nella sua versione multimediale in collaborazione col Museo Nivola di Orani è arrivata al primo posto in Italia al PAC2024 - Piano per l’Arte Contemporanea del Ministero della Cultura (per capirci, al secondo posto in graduatoria c’è il Museo Egizio di Torino) per creare un’installazione che consentirà agli utenti di navigare dentro l’opera, di isolarne le parti e crearne nuove versioni spostando manualmente i loop.
Cosa è la tradizione per Arrogalla?
Per me la tradizione è qualcosa di vivo e mutevole, davanti a noi, scelta e vissuta dal popolo nel quale CHE IN ESSA si riconosce e si rappresenta.
Prossimi passaggi e viaggi sonici?
Continuerò i giri con la Suite cercando di abitare tutti i festival possibili, poi c’è “Il Rito delle Pinturas a Bolu”, un concerto disegnato con Davide Toffolo e dedicato all’avifauna della Sardegna, poi continuerò a suonare in teatro con Carlotta Vagnoli, poi vorrei fare un disco di canzoni ma soprattutto trovare il tempo per suonare con Jacu e Cecilia.
Arrogalla – Suite (La Tempesta Dischi, 2024)
I processi di ibridazione sono centrali nella costruzione identitaria e musicale di Francesco Medda “Arrogalla”, artista in continuo movimento oltre i confini e le barriere musicali ma pure inevitabilmente centrato sulla sua isola, la Sardegna. “Quando manipolo i suoni, parto dalla normalità de ‘su matzamurru’ (zuppa di pane raffermo, tra i piatti poveri della tradizione del sud dell’Isola, mutevole a seconda degli ingredienti a disposizione, ndr). Rigetto qualsiasi forma di chiusura rigorosa, monolitica e conservatrice, e mi sento parte di quella comunità di artisti che, ovunque nel mondo, producono musiche che vogliono essere specchio del circostante. Non è la rivisitazione o la scrittura convenzionale a portare avanti la mia ricerca, ma la combinazione dei diversi elementi a mia disposizione, anche quelli apparentemente più distanti, nelle forme più pazzesche e fantasiose. I paesaggi, le lingue e le musiche mi hanno messo a disposizione un archivio sonoro sconfinato e in costante evoluzione”. Il suo più recente lavoro, in forma di “suite” composta da nove parti, congloba immagini sonore, field recordings raccolti in diversi luoghi del mondo: si incontrano voci e suoni di mercati popolari, di porti, di mezzi di trasporto pubblici, di animali e dei loro ambienti naturali, ma pure le violazioni alla natura stessa perpetrate dalle esercitazioni militari in terra sarda. Una partitura suonata interamente dal vivo elaborando i suoni con dubbing e live electronics che compongono una tessitura multi-stratificata; un flusso sonoro di ventitré minuti in cui convivono ritmi tropicali e l’essenza ritmica del carnevale di Gavoi (Nu) rappresentata da Pier Gavino Sedda dell’Associazione Tumbarinos (tumbarinu, triangolo, tumborro, bena, flauto di canna e voce). Ci sono la mandola (Mauro Palmas), i fiati (Maurizio Floris al sassofono contrabbasso, Francesca Romana Motzo al clarinetto, Massimo Loriga alla gaita marciana) la trunfa (Massimo Loriga), le chitarre (Maurizio Marzo) e l’organetto diatonico (Pierpaolo Vacca), droni, suoni campionati, tempi in levare, dub e la potenza del canto polifonico sardo (Cuncordu e Tenore de Orosei e Su Cuntrattu Seneghesu e i campioni vocali delle cantrici anonime di Bitti e Nulvi, tratti dal disco “Musica Sarda. Canti e danze popolari” di Diego Carpitella, Pietru Sassu & Leonardo Sole del 1973). L’intro della suite è un proliferare di voci in un mercato; l’incedere si fa più denso nelle tre sezioni successive, segnate da sovrapposizioni e dialoghi tra le fonti sonore campionate (tra cui un “Duru duru a ballu” registrato a Bitti nel 1967) e colte dal vivo. Si segnala la parte 5 in cui le voci di Nulvi (1964) intonano il “Duru Duru” e la mandola di Mauro Palmas intesse un ritmo di danza (qui è ripreso un frammento “Tandasuni”, proveniente da quel capo d’opera dei Suonofficina che è stato “Pingiada”). Tocca, quindi, al sempre ispirato organettista Pierpaolo Vacca muoversi in un intreccio di ritmi di cumbia e variegati timbri, tra i quali predominano tamburi e bena. Si impongono le sequenze successive con “ballu turturinu”, eseguito dai Cuncordu e Tenore de Orosei (parte 7) e “ballu ‘e càntidu” dei Su Cuntratti Seneghesu che incrocia “Mamma faimì movi” della ska-reggae band Ratapignata (parte 8). La parte conclusiva ci porta ancora la voce e gli strumenti di Pier Gavino Sedda (con la settecentesca poesia “Tiu Buttu - S’istella orrodeande a un’isteddu”) e il clarinetto in dialogo con il disturbo occupante delle esercitazioni militari nel poligono di Capo Teulada. Chiosa Arrogalla: “Dalle mie parti si dice: ‘s’òmini chi no furat no est òmini’ (l’uomo che non ruba non è un uomo). Forse anche per questo ho preso la cumbia e l’ho fatta mia, cercando di condirla con i suoni provenienti dal mio immaginario. Chissà se ‘su matzamurru’ è venuto bene?”. A noi la pietanza preparata da Arrogalla pare davvero appetitosa.
Ciro De Rosa
Foto di Alessio Cabras (1), Sara Deidda (2, 3, 4), Dietrich Steinmetz (5, 6), Pierluigi Dessì (7), Fabiana Amato (8) e Massimo Sechi (9)