Umbria Jazz, Perugia, 12-21 luglio 2024

Una delle migliori sorprese che Uj ha riservato al pubblico rimane, probabilmente, Raye (lo è stata senz’altro per chi scrive): abbiamo visto un pezzo di futuro. Non si tratta solo di musica. Ha a che fare con la sua persona e ciò che può rappresentare in uno scenario internazionale entro il quale si cerca qualità. E ci si affanna ad affinare la selezione. Raye ha abbattuto chili di formalismo, spazzando via non solo decenni di generi musicali, ma anche ogni rigidità performativa. Il suo concerto è stato un racconto, danzato, cantato e parlato. Spesso più parlato che cantato. Anzi la sua voce supera, in qualche modo, la distanza tra il canto e la parola, essendo tutta elaborata, con estrema naturalezza, dentro un registro melodico nuovo, spiazzante. In questo quadro l’entusiasmo di Raye ha abbracciato un pubblico ammirato, temerariamente uscito indenne da un primo week end di fuoco. La ripresa infrasettimanale non è stata da meno in quanto a fuoco: lunedì 15 il jazz si è spostato all’Arena, abbracciando una platea totalmente in mano al quartetto magico formato da Chris Potter (sassofono), Brad
Mehldau (pianoforte), John Patitucci (contrabbasso) e Johnathan Blake (batteria). Gli esperti di jazz hanno potuto assorbire inebriati i tocchi di questi maghi, perfettamente incastonati gli uni agli altri in un tripudio di melodie delicatissime. Il livello e l’intesa sono stati così alti da lasciare tutti senza parole: gli unici suoni provenienti dalla platea erano i mugugni di stupore alla fine degli assoli, accavallati agli applausi lenti e cadenzati e agli sguardi di intesa a destra e sinistra, tra chi sa di sentire l’irripetibile. Quel lunedì, tra gli ammirati, sono stati riconosciuti molti dei musicisti che si esibiscono nei vari palchi del festival: in assetto di religioso silenzio. Lo stesso Patitucci è stato inquadrato più volte in espressioni di totale trasporto, accavallato sul fianco del contrabbasso, quando Potter teneva la scena con il solo sassofono. Insomma, per niente facile raccontare la grazia di questi quattro geni, che sono quattro simbiosi con quattro strumenti: si può probabilmente partire da “Eagle’s Point”, l’album uscito qualche mese fa e provare a immaginare. La serata è proseguita con “Gil Evans Remembered”, l’omaggio che Pete Levin ha riservato a uno dei più bei capitoli della storia di Umbria
Jazz, ricomponendo parte dell’orchestra che ha raggiunto il suo apice tra gli anni ‘70 e ‘80. Evans non solo si esibì con Sting in un concerto memorabile nell’edizione del 1987 del festival, ma sigillò la sua vicinanza a Uj con un concerto nella chiesa di San Francesco: oggi rinnovata a prestigioso auditorium, al tempo chiesa misticamente decadente con abside scoperto. Le cronache ci dicono che l’orchestra di Evans si esibì a Perugia anche nel 1974, nel centro germinale del festival, ufficialmente nato l’anno prima. Come è ormai noto, la conformazione di Umbria Jazz permette anche di incontrare artisti lungo quella traiettoria di cui sopra. Incontrarli mentre si esibiscono nei palchi gratuiti - seguendo una turnazione più che generosa, che assicura spettacoli da mezzogiorno a mezzanotte - oppure incontrarli nei luoghi delle jam session: soprattutto la notte e in modalità molto informale. Abbiamo assistito, quest’anno, a incontri a dir poco coinvolgenti negli spazi del Secret Bistrot (dove, durante il primo week end, è più volte comparso Vinicio Capossela), dove si alternano e si mischiano, in assetto estemporaneo, i giovani delle Clinics - le masterclass che si svolgono durante il festival - e i tanti musicisti, coordinati da Piero Odorici e la sua
residence band (Daniele Scannapieco, Paolo Birro, Aldo Zunino e Anthony Pinciotti). Con Lizz Wright - cantante dal tono gospel e un’affascinante carica di misticismo, che viene intatta da una cittadina della Georgia, dove suo padre era un ministro battista e direttore musicale della chiesa locale - a Uj è arrivato un bel blues posato e profondo. Tutta la band (chitarra, basso, batteria e hammond) è rimasta appesa alla sua voce, brano dopo brano e fino alla fine. La mistica della Wright è molto personale, affatto scontata né affetta dalla circostanza, cioè dal momento della performance. Ha mantenuto un ritmo piano e morbido, indicando alla band il giusto peso di ogni nota. La serata tutta al femminile è proseguita, in un’arena ammirata e a tratti commossa dalla delicatezza della voce della Wright, con la magia irruente di Hiromi. La pianista giapponese ha rivoltato tutto in pochi minuti, trafiggendo il palco con la lama affilata del suo pianoforte nervoso e del suo sintetizzatore. Con lei ci sono i Sonicwonder (tromba, basso e batteria), un trio elettrizzante, capace di reggere a meraviglia i tratti più imprevedibili di un jazz estremo, nel quale si legge, sottotraccia, un’armonia e una scrittura frenetiche. 
La capacità tecnica di Hiromi non ha inibito il pubblico, che l’ha anzi seguita e ammirata fino a richiederle un lungo reprise. Il suo pieno trasporto non poteva non avvolgere l’intera performance. Ad accomunare le due artiste vi è un evidente legame con il festival e il suo fondatore, che ha senz’altro contribuito al lancio delle loro carriere in Europa. L’Arena di Santa Giuliana è esplosa di nuovo la sera del 17 luglio, con l’esibizione travolgente dei Toto. Inutile indugiare nei complimenti: la band è in forma, il jazz, pompato e coperto di sprazzi funky, è lì sotto da qualche parte. E non è poi così lontano. Il concerto ha avuto un sapore innegabilmente nostalgico, ma il suono era intatto e sicuro, preciso e irresistibile. Insomma, un grande evento pop, per una serata più obliqua e inclusiva, ma lo stesso carica di musica suonata da grandi maestri. Leggendo le cronache della manifestazione, emerge spesso la passione del pubblico per la varietà. Non solo musicale ma, più in generale, di atmosfera. Una varietà che definisce i tratti di un grande affresco di musica, in cui centinaia di musicisti fluttuano da una parte all’altra. E in cui, col passare dei giorni, ogni esibizione sembra sfumare un po' – senza per questo perdere di consistenza – nell’aura di quella che l’ha preceduta o
che la seguirà. La sensazione più forte è di un unico grande concerto, costruito sulle mani di musicisti in fondo simili: che sperimentano e, allo stesso tempo, elaborano la propria voce nel solco di una storia lunghissima. Correndo lungo quella traiettoria, tutto sembra confluire, nei giorni più prossimi al finale del festival, nei concerti (più etnici) di Fatoumata Diawara, Somi e Roberto Fonseca. Quest’ultimo è rimasto ovviamente più vicino al jazz, anche se la vena cubana, come è noto, rimane irriducibile e sempre in primo piano. Somi ha dimostrato essere una grande artista, con una voce e una postura on stage straordinarie. La sua voce è la sua esibizione, il suo concerto, la musica che emana: lenta, vorticosa ma ponderata, posata. La voce della Diawara, al contrario, è uno stridio irresistibile, trascinante, rituale: se quella di Somi è un clarinetto, quella di Fatoumata è una tromba. I movimenti di quest’ultima sul palco sono sciamanici, imperniati su una coreografia evidentemente tradizionale, sebbene attraversata da una narrazione di immagini elaboratissime e attraenti. I movimenti di Somi ricalcano il flusso delle melodie. 
Sono morbidi e centrali, in equilibrio su un tessuto musicale acustico, scarno e spesso improvvisato (con sax, pianoforte e contrabbasso). Diawara (“her sister”, come l’ha definita Somi al passaggio di consegne) porta in scena una struttura musicale sostanzialmente elettronica, con fraseggi onnipresenti di chitarra elettrica africana (siamo nel Mali, tanto per capirci). Somi porta su di sé un lirismo più complesso, che si mischia all’epica della dimensione transterritoriale, dell’esodo, della migrazione: arrivando all’elaborazione musicale della gentrificazione, cantata in “Petit Afrique’ a proposito di Harlem. Diawara riporta tutto a casa, dentro al blues elettrico che zampilla sabbia, politica, lotta e antagonismo. Entrambe evocano, nelle loro cerimonie-performance, i numi femminili della black music, legati a doppio file e per sempre all’Africa e all”Occidente: per Somi è Miriam Makeba, per Diawara Nina Simone. Insomma (anche quest’anno) tutto il jazz possibile. 


Daniele Cestellini

Foto di Simone Bargelli

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