Già il titolo incuriosisce ed evoca tanto: spiega il violinista e compositore napoletano che la corruzione delle voci spagnole “Mira Todos” dà come esito “Miradois”, nome del rilievo e di una strada a ridosso del Rione Sanità che sale verso la collina di Capodimonte. Pumilia (classe 1990) porta nella sua biografia gli intrecci culturali: un nonno nato in Tunisia da genitori siciliani e alle spalle una composita formazione musicale che passa per studi accademici di violino al Conservatorio a San Pietro a Majella di Napoli e per frequentazioni di linguaggi sonori trasversali, dal jazz manouche di Grappelli e Reinhardt a quello elettrificato e venato di rock e sperimentazione di Didier Lockwood, dalle musiche tradizionali dell’Est Europa (seguendo la lezione del violinista rumeno Illie Pipica) al flamenco (altra anima sonora di Pumilia, che ha inciso un disco in trio le cui coordinate sonoro sono proprio nel sud della Spagna) fino ai sistemi modali mediorientali (influenzato dal maestro Peppe Frana). “Blogfoolk” aveva incontrato Pumilia, occupandosi del luminoso “Majacosajusta” degli Araputo Zen , uno altro progetto dall’estetica plurima in cui il compositore è coinvolto.
In “Miradois” il violinista suona insieme a un quartetto base composto da Roberto Porzio (piano e synth), Paolo Petrella (basso), Giuseppe Donato (batteria) e Salvio La Rocca (percussioni), cui nelle otto tracce si uniscono Francesco Di Cristofaro (duduk), Peppe Frana (oud), Sergio Dileo (clarinetto), Alessandro Morlando (chitarra elettrica e saz), Alessandro De Carolis (flauti), Pasquale Ruocco (chitarra flamenco) e Valerio Middione (chitarra elettrica ed effetti). Registrato all’Auditorium Novecento di Napoli, con al banco di regia Fabrizio Piccolo, “Miradois” è un ritratto dell’autore che va componendosi allineando suggestioni, forme sonore e immagini di vita, captate e interiorizzate nei viaggi musicali da lui maturati negli ultimi anni. Ai più attempati potrà riportare alla mente le esperienze del primo Mauro Pagani, dell’indimenticato Velemir Dugina oppure, più recentemente, del siciliano Enzo Rao, per non dire dei richiami all’universo world-jazz di matrice mediorientale, ma va detto che nella “fusion” di Pumilia emerge un personale guardarsi intorno, un ordito di istanze emotive e compositive declinato con frizzante energia.
L’iniziale “Mosul” nasce dall’esperienza concreta vissuta nella antichissima
martoriata città nord irachena, quando il violinista ha suonato in un festival organizzato dall’Unesco proprio per rilanciare la città devastata dalle guerre. Qui, dopo l’ingresso di percussioni e violino che introducono il tema, primeggia l’affondo dell’oud, poi il violino riprende il ruolo di guida e avvia un’accelerazione in cui si raggiunge il pieno strumentale, con il piano che prende il suo spazio fino al ritorno al un tempo moderato nel movimento conclusivo. “Dahar”, dal nome di una catena montuosa tunisina, si apre ad ascendenze nord africane ma non dimentica di passare per Napoli: nell’organico entrano darbuka e qraqeb, chitarra elettrica, synth, flauti e saz in una proficua confluenza tra strumenti acustici ed elettronica. Come pressoché nella totalità del disco prevale la struttura jazzistica che prevede lo sviluppo del tema, una sequenza improvvisativa che mette al centro i singoli strumenti e il ritorno al tema. Così accade nei nove minuti di “Migration”, nel cui incedere risaltano echi sonori delle diverse sponde del Mediterraneo orientale. Un potente soffio andaluso si impadronisce di “Zèfiro” – il vento occidentale – dove a lasciare il segno è la chitarra flamenco di Pasquale Ruocco. “Janūb”, sud in arabo, è un’improvvisazione, un taqsim, preludio alle vivaci convergenze etno-prog-rock e agli accenti dispari dello splendido “Trupéa” (un “temporale improvviso” nel dialetto napoletano, chiarisce il musicista-velista), dove entra il duduk (Di Cristofaro). Nella conclusiva “Sufi” la bussola si orienta nuovamente verso stilemi mediorientali in quella che si configura come una danza dai tempi plurimi.
Pervaso da molteplici influssi, “Miradois” offre un percorso stratificato ma sempre diretto, energetico e ammaliante, che gustato dal vivo sa riservare ancor più sorprese.
Ciro De Rosa
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