Il Gwerz di Bretagna: tradizione incessante

Ci sono gwerzioù che donano voce all’espressione umana più intima, al terzo mondo dei Celti ("Ar Bed Arall"), che diventano canto di collegamento con le sfere celesti, emozione di un istante sorto dal passato, che traccia e che si iscrive in una storia dal percorso infinito. L'enigmatico testo di un gwerz può risultare, come quello di “Skolvan”, simbolico e esoterico, contenere al suo interno un messaggio “segreto” collegato inevitabilmente a Merlino (Myrddin), il saggio autore delle profezie, colui che perse il libro magico. Il gwerz di “Iannik Skolan” è stato raccolto nel XIX secolo ma dimostra chiaramente come la tradizione non dimentichi mai i tempi antichi, Merlino esisteva ben prima delle sue profezie, proveniva da trasmissioni orali che iniziarono nel VI secolo anche se la storia scritta lo ha datato dal IX all'XI secolo. Merlino ha significato pure di cammino alla scoperta del mito perché un personaggio lo diventa quando la letteratura finisce per impossessarsene. L'esoterismo di per sé non contiene  niente di nascosto, quello che viene mascherato è l'iniziazione, è là che risiede il vero segreto. Si tratta di un gwerz diviso in due parti: nella prima titolata “Ar Gwall Daol” (Il crimine) il racconto appare lineare, il protagonista viene impiccato nella piazza di Vannes per aver assassinato la propria cuginetta, la contadina Morised che gli aveva rifiutato un bacio per castità. La vicenda si svolge a Melrand a fine XIX secolo dove è stata anche eretta una croce di pietra nel punto in cui la vicenda si svolse. Nella seconda parte “Truez Ann Ene” (Il Ringraziamento dell'Anima) tutto cambia e l'ambientazione diventa oscura e vaga, si allude a un misterioso libricino finito in fondo al mare e a vari animali, tutti simboli celtici precisi. Iannik Skolan torna dopo la morte a chiedere perdono alla madre per il suo crimine, entrando al buio, attraverso porte e finestre chiuse. Secondo l'idea bretone, non basta, infatti, il perdono del prete in nome di Dio, per raggiungere la salvezza dell'anima ma serve anche quello della madre. E la madre non crede ai propri occhi avendolo precedentemente lasciato senza vita, avvolto in un lenzuolo bianco, maledetto per l'omicidio e anche per aver perduto il suo “piccolo libro”, quella che lei definisce la propria “consolazione in questo mondo”. Ora lo vede tornare dal purgatorio, sul dorso del destriero nero del diavolo e non vuole accordargli la propria benedizione, affinché si aprano per lui le porte del paradiso. Ma il santo patrono che lo accompagna interviene, aggiungendo le proprie preghiere a quelle del ragazzo che alla fine viene perdonato e a questo punto il cavallo diventa bianco e la sua criniera brilla alla luce del sole. In Bretagna,
questa seconda parte del canto, infinitamente più antica della prima, è popolare nel Tréguier e in Cornovaglia ma sconosciuta a Vannes. L’intero dialogo tra figlio e madre nella ballata presenta però similitudini sorprendenti col contenuto dell’anonimo manoscritto gallese “Llyfr Du Caerfyrddin” (Libro Nero di Caermarthen) che narra poeticamente di un penitente che altro non è che il bardo Merlino. Curioso e singolare parallelismo esiste anche tra il nome Skolan e San Colombano che in gallese si dice Yscolan. Théodore Hersart de la Villemarqué pone il gwerz al numero XLVIII del suo “Barzaz Breiz”, situandolo per errore nel XVIII secolo, poiché ne conoscerà la probabile origine solamente nel 1845. Un alone di mistero avvolge questo testo anche se si ipotizza che le coincidenze possano dipendere da culti e tradizioni similari tra bretoni gallesi e armoricani. De la Villemarqué scrisse che ai suoi tempi un solo contadino fu in grado di cantarglielo interamente nei tre dialetti di cui era composto. E se era una cosa rara nell'800 oggi è ovviamente, del tutto impossibile. Viene infatti sempre interpretato parzialmente, sia quando si ha la fortuna di ascoltarlo in situazioni informali in Bretagna oppure all'interno delle varie sue registrazioni discografiche a opera di M.me Bertrand (reg. 1959), Jean-François Louis Quémener (Yann-Fañch Loeiz Kemener) (reg. 1977–1996), Andrée Le Gouil (Andrea Ar Gouilh) (reg. 1989-2008), Annie Ebrel (reg. 1998), Anne Auffret (reg. 2003), Erik Marchand (reg. 2007) o dell'italiano di Bretagna, Andrea Sechi. Allo stesso modo si può dire che il Merlino odierno non ha oramai più nulla a vedere con quello gaelico delle origini. Il gwerz è il blues di Bretagna. In lingua originale questo termine è al femminile al contrario del resto della Francia, fu il folklorista e poeta François-Marie Luzel (Plouaret 1821 – Kemper 1895), pioniere della sua diffusione in francese, a utilizzarlo la prima volta al maschile. Fañch an Uhel (il
suo nome in bretone) era incaricato alla conservazione degli archivi dipartimentali di Kemper e nel 1872 durante il Congresso dell’Associazione Bretone a Saint-Brieuc, sostenne la sua tesi sulla parziale falsità del Barzaz Breiz, divenendo da lì in avanti il suo principale contestatore. In effetti cento anni dopo, nel 1974 è stato definitivamente stabilito che de la Villemarqué intervenne pesantemente sui testi, talvolta addirittura ri-trascrivendoli. Qualche canzone come, ad esempio, la crudele “Le Rossignol” è indubbiamente da attribuire alla poetessa Marie de France, che compose questo “lai” verso il 1178, ambientandolo nella città bretone di Saint-Malo. Ci sono dei gwerz che tutti conoscono e amano come il famosissimo “Marv eo ma mestrez” (https://terreceltiche.altervista.org/gwerz-marv-eo-ma-mestrez/) oppure “Eliz Iza” che rappresenta da sola tutta la Bretagna, così come “Ne me quitte pas” può rappresentare Jacques Brel, o“Il vino” Piero Ciampi, o “Suzanne” Leonard Cohen. Anticamente il gwerz è stato anche chiamato dai cantastorie “lais”, ovvero “poemetto”, probabilmente per differenziarlo da canti religiosi, festaioli o amorosi (“kentel”, “son”, “zon”). Comunque difficilmente il gwerz risulta un racconto lineare, quanto piuttosto un succedersi di quadri, divisi in atti, proprio come le opere teatrali. Ascoltare un gwerz significa accettare di viverlo in prima persona, ovvero entrare profondamente in un mondo differente, sempre drammatico. Significa soprattutto entrarci nel momento preciso in cui l’avvenimento accade e si svolge sotto i nostri occhi in tutta la sua intensità, quadro dopo quadro. Che tratti di un avvenimento storico oppure leggendario, non si può mai ascoltarlo così come viene, distrattamente. Ballata, canzone o lamentazione che la si voglia intendere, è sempre estremamente esigente e domanda la totale adesione dell'ascoltatore. Di fronte a un gwerz non si usano semplicemente le orecchie, senza attenzione, approvazione, completa immersione non lo si ascolta veramente. Queste preziose pietre sonore armoricane avrebbero potuto essere
del tutto scomparse invece non solo non è affatto accaduto ma addirittura ai giorni d'oggi, grazie a gente 
come Denez Prigent (1966) ne nascono di nuove, riguardanti drammi mondiali attuali, che poi sono quelli che da sempre tormentano la vita dell'umanità. Accompagnati dalla riscrittura accattivante e intensa di musiche contemporanee,  alcuni dei gwerz composti da Denez  nei recenti decenni hanno riguardato, in ordine sparso:
- la carestia di origine dolosa che si abbattè sull’Ucraina tra il 1929 e il 1933, uccidendo quattro milioni di persone (“Gwerz Kiev”)
- l’epidemia di Ebola in Zaire (oggi Congo) (“An Droug Red”)
- l'inquinamento altissimo provocato dalla Sometra, fabbrica che rappresentava l’industria metallurgica romena spinta al massimo della produttività durante il regime comunista e unica possibilità di lavoro per i giovani, che ha abbassato le aspettative di vita della popolazione locale di almeno dieci anni (“Copsa Mica”)
- l’invasione del Tibet da parte della Cina (“Ar Chas Ruz”)
- l'infanticidio in India come conseguenza della diminuzione della politica statale demografica (“Ar Wezenn-Dar”) 
- il massacro di ventimila civili tutsi e hutu nella chiesa di Nyarabuyé, nella provincia di Kibungo in Rwanda (“An Iliz Ruz”)
- la prostituzione giovanile nelle Filippine (“Ur Fulenn Aour”)
È viva la meraviglia di questi canti che per secoli hanno impresso storie di remota cultura negli angoli reconditi d’Armorica e nelle pupille della storia, mentre intanto il mare bretone continuava incessantemente a torcersi nel suo fluttuare infuriato assaltando le scogliere per poi acquietarsi nelle rade. Come lui anche la tradizione non si arresta. 

Flavio Poltronieri 

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