I gwerz di Denez: ambasciatore di utopie, messaggero di storie

Quattro venti di ostilità sembrano trattenerla e nello svolgersi del loro racconto nessun fantasma sposa più quella ragione, l'orizzonte porta alle danze e la bilancia del tempo oscilla di esistenza virtuale. I personaggi che emergono dai ritornelli lasciano dietro di sé il gelo dei tesori celati nel fondo dei sogni. L'uomo della terra vede levarsi il vento da tutte le coste, vede svanire la sua bellezza ma non ha forza sufficiente per addormentare il suo desiderio d’amore e pace. Questo gli è interdetto! I gwerz di Denez accarezzano ostinatamente il mistero e, seppur tra pericoli e paure, lasciano fare al vento “Eccomi tra due mondi come le anime degli annegati, eccomi solo, senza velo, senza timone, senza stella. Eccomi senza niente. Nella nebbia, alla deriva su un mare di lacrime, portato via dal soffio della morte e la campana a morto delle acque profonde. Lasciati trasportare e suona per me chiaro e allegro”. “Ur Mor A Zaeloù” (Un Mare Di Lacrime), pubblicato da Coop Breizh (2022), è l’appropriato titolo del dodicesimo disco di Denez (il primo “Ha Daouarn”, in quartetto acustico, uscì originariamente nel 1992 solo in cassetta, in seguito non è stato mai ristampato in alcun formato). È stato registrato dal vivo nella Chiesa di Saint-Brendan a Lanvellec, all’interno del Pays du Trégor, Côtes d’Armor, e rimane a testimonianza di una serie di spettacoli tenuti in luoghi sacri bretoni, lontani dalle sale da concerto. Più che a un incontro musicale, la mancanza di applausi lo rende simile ad un rito solenne e incantatorio, come sempre accade con lui. Ma stavolta sorprendentemente è composto non dai suoi gwerz originali (tranne due) quanto consacrato piuttosto a quelli tradizionali. Interpretati per l’occasione con una formazione spoglia di quella elettricità che invitava il kan ha diskan alla trance all’interno dei suoi successi precedenti. Un gruppo di musicisti folk che suona in forma di piccolo ensemble classico e senza indugiare nella drammatica sottolineatura delle spettrali parole del canto. Il gwerz è un canto aritmico, una grande parte di improvvisazione è necessaria per un’interpretazione che muta di volta in volta il ritmo, se lo si cerca, dev’essere captato dentro di sé, nella spirale che si avvita dal fondo della propria voce. Il gwerz, come il pianto, ha questo potere catartico di fermare il tempo e di affrontare a mani nude tensioni e
paure. Questi canti arcaici giungono dalle prime età cristiane e druidiche, quando i bardi gallesi o armoricani componevano le loro canzoni in faccia all’Ankou confondendo stupore e pianto, rinuncia e collera, accettazione e rivolta, dolore e rinascita, realtà e fantastico. A quel tempo il nero era quello di novembre, dei corvi, della miseria, dei preti e della carretta della morte, il rosso, quello dei soldati, del sangue, dell’ira e il bianco, quello della pietra, dei ceri, della rassegnazione, delle lenzuola o dei capelli dei vecchi. Non esisteva ancora la psicanalisi e in Bretagna erano i gwerz ad esorcizzare i dolori provocati dalla devastazione implacabile di un dio, di un potente, di una malattia, di una carestia o lo strazio per la perdita di un amore. I gwerz sono il blues con il quale la Bretagna profonda bagna e lava da sempre il proprio cuore e il macabro carretto cigolante della morte viene assunto a coscienza per far meglio amare la vita. Nei gwerz l’uomo è solo e fa riferimento unicamente agli elementi naturali che segnano i destini del mondo: aria, vento, terra, pietra, erba, legno, acqua, fuoco... La Chiesa di Saint-Brendan di Lanvellec è un luogo di culto a croce latina che incorpora una navata dai lati bassi di sei campate ed è stata più volte ricostruita dopo gli scempi di varie guerre. Fu terminata nel 1865, torre a parte, sui progetti realizzati da Yves Hernot (padre), scultore bretone specializzato nella creazione di calvari e tombe. Un posto ideale dove sposare riverberi e risonanze del granito coi canti spirituali e tragici del V secolo, evocando nella celebrazione di morti ed amori eterni, la sublimazione di sofferenze e tragedie. 
Nell’occasione, la voce di Denez è accompagnata da Mathilde Chevrel al violoncello, Cyrille Bonneau a duduk armeno, sax soprano, cornamusa scozzese e veuze (cornamusa locale rustica del XIX secolo), Jonathan Dour a violino e alto, Jean-Baptiste Henry al bandonéon, Antoine Lahay a chitarra 12 corde e charango, a cui si aggiunge in tre occasioni la Corale Infantile di Saint-Brieuc diretta dal Maestro Goulven Airault. Apre con “Marv Ma Mestrez”: quando la musica inizia a espandersi nell’aria perfino una mosca si sentirebbe intimorita a volare davanti ad un violino degno del minimalismo di Philip Glass e ad una cornamusa piccola ma epica come non mai, la veuze. È uno strumento raro che troverete in pochi dischi e raccolte, in uso dalle parti di Nantes (Bro Naoned), oltre che al suo ovest, tra l’estuario de La Vilaine e della Loira (Pays de Guérand), nella parte sud-occidentale della Loira Atlantica (Pays de Retz) e anche nell’umida parte vandeana del Marais Breton. La vecchia veuze e il più recente biniou condividono in Bretagna un lontano antenato comune, tra le due guerre era estinta come un dinosauro, ma tale Jean Villebrun ne scovò tracce che servirono come esempio al liutaio Dorig le Voyer per realizzarne nuovi modelli più recenti. A Nantes esiste dal 1976 una associazione (unica in Francia) a lei consacrata, fin troppo sobriamente chiamata “Sonneurs de veuze”. “Marv Ma Mestrez” (La Morte Della Mia Amata) rappresenta con “Eliz Iza” e “Me Zo Ganet E Kreiz Ar Mor” una delle melodie supreme della tradizione bretone. 
Le prime a farla conoscere furono le Sorelle Goadec che la insegnarono ad Alan Stivell, all’epoca loro allievo. Il quale la inciderà “a cappella” nell’epocale “Chemin De Terre” nel 1973, dopo averla proposta in concerto e alla televisione francese fin dall’anno precedente. Il testo di questo struggente e tormentato lamento delle montagne ad un certo punto recita “...venite, supplizi di questo mondo, fucili e coltelli, sbrigatevi, per favore a portarmi via la vita affinché io vada all’altro mondo, seguendo il mio amore…”. Il sassofono soprano e il bandoneon si intrecciano come erica e ginestra nel giardino del folklore immaginario in “Ar Bugel Koar”, dove, tra il pizzicato di violino, non esiste più il nord ma non esiste più nemmeno il sud. Siamo nella terra del sortilegio dove si svolge l’oscuro racconto di questa tragica vicenda avvenuta nel passato a Tréguier. La figlia del Signore di Penfeunteun voleva sbarazzarsi di suo padre per entrare immediatamente in possesso dell’eredità e in combutta con un prete orchestrò il finto battesimo di un figlio che aveva simulato di dover partorire, tenendo un pupazzo sotto la veste per nove mesi. Ma il padre, avvertito dell’inganno dalla nutrice, trovò il bambino di cera in un baule e accecato dall’ira mandò la ragazza al rogo dopo la Messa davanti all’intero paese. Nel 1996 Denez aveva inserito questo gwerz nel ri-registrare il suo disco d’esordio di tre anni prima e dal quale aveva scelto di sostituire tre canzoni (Ulteriori dettagli e traduzione del testo a cura di Flavio Poltronieri sono reperibili su TerreCeltiche). 
“Ar Plac’h Div Wech Eurejet” proviene dal repertorio delle Sorelle Goadec che la incisero nel 1975 nel disco omonimo “Ar C’hoarezed Goadeg”, per la produzione di Alan Stivell e della sua casa discografica (Keltia III). Anche la celebre figlia di Eugénie Goadec, Louise Ebrel, l’ha interpretata nel suo “Gwerz Ha Kan A Boz” (1995) al quale partecipava anche Denez Prigent come cantante e direttore musicale (il CD è stato riedito nel 2009 con il generico titolo “Gwerz”). Si narra di un uomo dato per disperso ma che un giorno ritorna al suo villaggio dopo una lunga assenza. Proprio il giorno in cui sua moglie si risposava. A sera lui bussò alla porta, lei aprì e i due morirono sul posto uno nelle braccia dell’altra. Ne esistono numerose varianti, in una meno tragica la ragazza esclama: “Dio Signore, che fare? Ieri ero vedova, oggi ho due mariti, con quale andrò a dormire?”. Il successivo “Bosenn Eliant” è un testo tratto dal “Barzaz Breiz”. I suoni non indugiano nel sottolineare la spettrale cronaca narrata, forse gli strumenti non comprendono le parole ed è senz’altro meglio così. Questo gwerz in dialetto di Cornovaglia, dice della devastante pandemia che nel 1348 uccise più di settemila persone e rase al suolo la cittadina di Elliant nella quale si salvarono solamente una donna di sessant’anni e suo figlio. Nel cimitero i morti ammassati erano più alti delle mura di cinta, la chiesa ne era colma, si benedissero perfino i campi per poterli sotterrare tutti. Si trattava della stessa peste nera descritta ne “I promessi sposi”, la seconda delle quattro pandemie che nei secoli hanno colpito l’umanità. C’è una leggenda in Bretagna che racconta di come il giorno del “pardon” nel borgo di 
Elliant un mugnaio, mentre passava il guado con i suoi cavalli, vide seduta una bella donna tutta vestita in bianco che, con una bacchetta in mano, gli chiese aiuto per passare sull’altra sponda. Lesto il giovane l’aiutò, al che lei gli disse: “Giovanotto, io sono la Peste, vengo a fare il giro della Bretagna e vado in chiesa dove suonano la messa. Tutti quelli che toccherò con la mia bacchetta moriranno immediatamente, ma non preoccuparti, tu non avrai alcun male e neppure tua madre.” Un estratto, (precisamente le strofe 3-4-7-8-9-10-18-19-20) è stato interpretato nel 1977 anche dal mitico Patrik Ewen, nel disco “Ker Ys”. Il testo inizia raccontando che tra Langolen e Le Faouet abitava un Santo Bardo chiamato Père Rasian e di come quando la peste entrava nelle case, la gente scappasse. Sulla pubblica piazza di Elliant c’erano diciotto carrette piene di corpi, altrettante all’entrata del cimitero e ulteriori in arrivo. Una madre seppelliva i suoi nove bambini urlando a Dio, mentre il loro padre fischiettava, oramai del tutto impazzito. Anche i Tri Yann interpretano solennemente questo canto a più voci con accompagnamento di organo (quarta traccia di “Rummadoù”, 2010). Di tutto ciò, compresa la traduzione del testo, tratto in precedenza su TerreCeltiche. Il solitario sax iniziale introduce ed è il protagonista principale dell’accompagnamento di “Iwan Gamus”, pezzo tragico-romantico oggi molto noto in Bretagna e recentemente attualizzato musicalmente da Astrakan Project e (ancor più discutibilmente) in forma hip hop folk o kan ha beatbox da Krismenn & Alem. In origine apparteneva all’incredibile repertorio della più leggendaria interprete di gwerz del Pays Fañch (estremità orientale della Cornovaglia), Marie-Josèphe Bertrand originaria di
Plouvenez-Quintin (1886-1970) che lo registrò su disco con la sua potente voce nel 1959, quando lei aveva oramai più di settant’anni. È stato in passato ripreso in memorabili versioni da Erik Marchand, Bagad Cap Caval o Rozenn Talec. Iwan Gamus di Plouigneau (Plouvino) era il ragazzo più triste del mondo: mentre conduceva fischiettando le bestie al pascolo, si sedette su una pietra bianca ad aspettare il passaggio della sorella minore Marie che era andata alla messa. Ma quando giunse lo informò che purtroppo la sua fidanzata era morta. Iwan si precipitò alla chiesa dove vide il prete vestito di bianco che conduceva il feretro a Saint Gelven. Là il giovane si inginocchiò a fianco alla bara in lacrime e chiese a Marie di preparargli il letto dicendo che mai più ne sarebbe uscito se non per essere sepolto. Chiese di raggiungere l’amata nella stessa tomba poiché mai ebbero la possibilità di dormire in vita, assieme nello stesso letto. Denez l’aveva registrata nel suo disco d’esordio su arrangiamento d’arpa dell’eccelsa Kristen Nogues e come allora fa seguire la canzone dal tema musicale “Gwerz Ker Is” ancora tratto dal “Barzaz Breiz”. In occasione della re-incisione del 1996, aveva aggiunto in conclusione la recita delle litanie funebri. “Kanañ A Ran” inizia col malinconico incedere del coro angelico dei bambini ad accompagnare la voce di Denez e a precedere il sax. Si tratta di una straziante lirica intimista in stile haiku, arrangiata a quattro mani da Mathilde Chevrel, Jonathan Dour, Cyrille Bonneau e Antoine Lahay. Le parole collocano il sentimento al centro di tutto. Denez conobbe la moglie Stephanie Pontfilly mentre seguiva i corsi di arte plastica e lei frequentava il quinto anno dell’Università di Lettere di Rennes. 
Questa canzone di speranza di un amore in divenire probabilmente indirizzata ancora all’amata e indimenticata consorte, improvvisamente spirata nel sonno. Da quel giorno Denez si chiuse a scrivere centinaia di gwerz, riemergendo più di dieci anni dopo nel 2015 col CD “Ul Liorzh Vurzhudus” (Un Giardino Incantato), “poco importano vento e pioggia il mio fuoco brucia sempre, la mia voce brilla ancora, non c’è un giorno che io non canti, poco importano i tormenti della vita, canto l’amore...”. Segue “Naonegezh Kiev” che , dopo la precedente, è la seconda e ultima delle composizioni di Denez presente nell’album e proviene da “Sarac’h” del 2003 nel quale la parte del testo in gaelico-scozzese veniva cantata da Karen Matheson. L’iniziale canto corale infantile forse non lascia presagire la crudeltà dell’argomento trattato dal suo autore “... al viaggiatore che domanderà il cammino per Kiev, rispondete: segui i corvi nel cielo, ti ci porteranno in fretta, segui i cani randagi nei campi, ci arriverai facilmente! E quando arriverà a Kiev troverà una disperazione senza fine lungo le strade, vedrà solo morti, migliaia di persone morte di fame, i cercatori nei rifiuti si nutrono di loro come mai prima…”. Nel suo ritornello da brividi “O lo lidh o lo lo, O lo lidh o lo lo, O lo lidh o lo lo, O lo lidh o lo lo” Denez sembra rispondere ai bambini con una ninnananna la cui tenerezza non dimentica l’adolescenza quando ascoltava rapito la voce di Jacques Brel in alternanza a quelle delle tre Sorelle Goadec. In lingua ucraina lo sterminio per fame è detto голодомор e ha rappresentato l’input per Prigent: “Sant’Hervé, patrono dei bardi, mi ha dato l’ispirazione per comporre un canto nuovo, un gwerz sulla grande carestia di Kiev, in Ucraina, che ha sterminato tre milioni di persone su ordine di un solo uomo…” 
L’Holodomor, genocidio per carestia (detto anche Olocausto Ucraino) fu perpetrato per ordine di Stalin e finì per sterminare d’inedia milioni di piccoli proprietari terrieri e contadini ucraini e russi rappresentanti di una civiltà secolare. Si sovrappose tragicamente alla carestia generata da cause naturali tra il 1929 e il 1933: la popolazione soccombette per Moрити голодом (Infliggere la morte per fame). L’Unione Sovietica ha ufficialmente negato a lungo che ci fosse mai stata la carestia, il numero di vittime riconosciuto a tutt’oggi è di 7 milioni ma con esattezza probabilmente non si saprà mai. Invece, in “Soudard Ar Fur” il bandoneon accenna a sfumati echi di tango: si tratta di una canzone scritta in Vannetais da Max Ar Fur, circa nel 1880, su una musica tradizionale. Nonostante possieda un autore riconosciuto, oramai viene considerata unanimemente popolare, cosa che in Bretagna capita, a differenza della maggior parte dei luoghi, talvolta anche in tempi brevi come in questo caso. Ne esistono numerose varianti testuali in giro per il Paese. Prima di Denez l’hanno incisa anche altri, tra cui in primis il nipote reale Gweltaz Ar Fur (“Gildas Le Fur”), per il quale si tratta quindi di un “canto di famiglia” (“Chants Celtiques”, 1973 e “Mebay ‘Vo Glaw”, 2012). Gliela aveva insegnata il padre e narra di un suo prozio caduto durante la guerra franco-prussiana del 1870. La divisa militare francese era a quel tempo di colore rosso e il testo insiste sui colori parlando della morte incombente sui soldati. Un’immagine molto forte a contrasto con le vesti nere dei preti, come altrettanto incisiva è quella dell'albero del cimitero che appassisce quando il soldato muore. L’ha registrata anche l’arpista Soazig Kermabon (“Chant Et Harpe Celtique”, 1980 – “Horizons Celtiques”, 1997) che la imparò dalla nonna Marie-Jeanne Le Peutrec, originaria di Hennebont. Quindi il gruppo Gwalarn (“A-Hed An Amzer”, 1990) e anche l’amico Gilles Servat (“Comme Je Voudrai!”, 2000). Ma si tratta di una canzone che ha goduto di una piccola fortuna anche fuori dalla Bretagna, ci sono versioni ad opera di Askolenn, gruppo scozzese di Glasgow di Lucie Mandrages, del polistrumentista world ungherese Arany Zoltán o del gruppo russo-moscovita Meldis dell’arpista Anastasija Ivanovna Papisova. Il villaggio del soldato Ar Fur era quello di Brizak, dove il cimitero esiste ancora, anche se oggi si tratta di un quartiere campagnardo di Vannes. 
“I soldati sono vestiti di rosso, o lin de lin da lan de lin da, i soldati sono vestiti di rosso e i preti sono vestiti di nero...la terra ha cominciato a bagnarsi, o lin de lin da lan de lin da, la terra ha cominciato a bagnarsi assieme alle lacrime dei Bretoni”
. La sorgente di “E Ti Eliz Iza”, sommo canto bretone delle montagne, è Eugénie Goadeg che con le sue due sorelle l’ha fatta conoscere ad Alan Stivell. Narra di una ragazzina che piange il padre ucciso dagli Inglesi e la madre che ne è morta di crepacuore. Dopo un inizio quasi medievaleggiante, ad un certo punto coro e strumenti lasciano solo Denez, poi sarà lui a lasciare le voci al solo coro, quindi la cornamusa si innalza in preghiera e nessuno osa più cantare, Denez e coro concluderanno infine da soli. Alan Stivell la propose a conclusione della prima facciata di “Renaissance De La Harpe Celtique” nel 1971, in omaggio dichiarato alle Sorelle Goadec, e Denez l’aveva precedentemente inserita in “Ar Gouriz Koar” nel 1993. Martin Carthy attribuì il nome Eliza alla sua unica figlia in onore a questo canto (L’elenco delle sue numerose interpretazioni e traduzione a cura di Flavio Poltronieri sono online su TerreCeltiche ndr). Infine, “Deuit Ganin” è una melodia proveniente dal repertorio delle Sorelle Goadec, registrata sia nel loro esordio nel 1972 su etichetta Mouëz-Breiz che in “Ha Bobino” (Le Chante Du Monde, 1973). La ragazza non cede alle lusinghe e alle promesse del corteggiatore a meno che il giovanotto non sia disposto a sposarla. Denez si congeda cantandola a cappella, lungo undici incantatori minuti in completa solitudine come se la voce tra le pietre erose dal tempo potesse donar loro un nuovo respiro. 


Flavio Poltronieri

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