Dietro a “Non al denaro, non all’amore né al cielo” di Fabrizio De André

Questo disco di De André è letteratura musicale originata da una geniale idea dello scrittore libertario/antiborghese Edgar Lee Masters (Garnett, 23 agosto 1868 – Melrose Park, 5 marzo 1950). Il titolo riassume in frase lapidaria (citazione tratta da “La Collina” in riferimento al Suonatore Jones), la sintesi programmatica e poetica di questo viaggio di cultura partito dalla realtà americana dei primi decenni del ‘900 e arrivato alla nostra, passando attraverso narrazione e lirica. Ha incrociato lungo il cammino la sensibilità di Cesare Pavese che introdusse la sepolcrale “Antologia di Spoon River” (1915) in Italia e la tenace passione-intraprendenza di Fernanda Pivano che si impegnò a tradurla, inizialmente in gran segreto per timore dei giudizi negativi del suo illustre Professore. L’idea di farne un disco arrivò, ulteriori quasi trenta anni dopo, a Sergio Bardotti che assieme a Roberto Danè si ritaglierà il ruolo di produttore. Verrà pubblicato l’11 novembre 1971, giorno consacrato a San Martino, noto per aver rischiarato il cielo con la sua generosità e aver portato una breve estate dentro l’inverno. In svariate regioni italiane viene però associato alla maturazione e all'assaggio del vino nuovo (“a San Martino ogni mosto diventa vino”): coincidenze certamente suggestive. Nelle intenzioni non era stato progettato per De André bensì per il suo amico Michele Maisano (in arte Michele), così almeno narra Gian Piero Reverberi. Fabrizio avrebbe dovuto unicamente occuparsi della stesura delle canzoni a partire da quelle epigrafi in versi liberi. Ma toccherà alla visionarietà immaginifica della sua voce porgere a noi ascoltatori, il definitivo adattamento all’interno della realtà canzonistica del seducente volume che, composto di brevi scritti, formalmente discende dagli epigrammi greci. In collaborazione con il compianto “compagno marxista” Giuseppe Bentivoglio, che già aveva partecipato a “Tutti Morimmo A Stento” tre anni prima e con le orchestrazioni arrangiate da un giovane Nicola Piovani, co-firmatario di musiche che rappresentano una seconda penna con cui sottolineare i sentimenti umani descritti. I versi di De André sempre così decisamente poggiati alle scansioni delle parole ne acquistano, nel loro recitar-cantando, dalle righe degli spartiti, da note che sembrano raggi di arcobaleno pronti a irradiare chiunque ascolti. In Italia nel campo della cosiddetta “musica leggera” generalmente la melodia era composta prima e successivamente venivano adattate le parole, il contrario avveniva invece per la “musica colta”. Piovani è riuscito ad ammantare con sublime maestrìa queste liriche antieroiche, di suoni elegiaci quasi vivaldiani utilizzando con disinvoltura dai clavicembali all’elettronica, in una serie di atmosfere atte a sfociare all’occorrenza, in fiaba o incubo. Nel
caso di “Un Blasfemo” rielaborando il tema popolare della canzone tradizionale del sud inglese “Rambleaway” (Roud 171) resa celebre dalla voce di Shirley Collins (“Heroes in Love”, Topic, 1963). Il libro comprende una serie di epitaffi (249) per altrettante persone, tutte oramai completamente libere poiché definitivamente residenti al cimitero della cittadina immaginaria di Spoon River. Libere di utilizzare le parole e i pensieri preferiti, libere da giudizio e morale degli altri, libere da sentenze e condanne, libere da imperanti ipocrisie e puritanesimo che attanagliavano quell’inizio secolo americano. Il lettore viene trasfigurato in visitatore di un cimitero dove le lapidi hanno facoltà di donare voce funebre al proprio passato, narrando una storia che è quella di tutti i luoghi attraverso gli occhi di un microcosmo qualsiasi. Un senso di tragedia e inibizione, insoddisfazione e solitudine, aleggia tra le pagine, rivelando come sotto apparenze levigate e silenziose si nascondano fermenti a lungo e a stento, trattenuti. Perduta la dimensione plurale dell’esistenza, il male soffoca il bene, lo opprime, lo domina, lascia ognuno in balìa delle piccole commedie o tragedie personali. L’insieme dei racconti del villaggio va a comporre un vero e proprio trattato sociologico nel quale l’essere umano risulta completamente schiacciato dagli effetti dell’industrializzazione sulla vita all’interno della provincia. All’inizio del secolo scorso gli Stati Uniti d’America erano in effetti la nazione maggiormente industrializzata al mondo, Edgar Lee Masters era invece un avvocato di mezza tacca che esercitava a Chicago ma amava follemente la scrittura, la professione l’aveva intrapresa solamente per motivi economici seguendo le orme paterne. Dal maggio 1914 a inizio dell’anno seguente, queste brevi poesie trovarono regolarmente pubblicazione sotto lo pseudonimo di Webster Ford (in omaggio ai due drammaturghi anglo giacomiani, dalle opere colme di violenza, politica e sesso) sul Reedy’s Mirror di St.Louis, in gruppi di otto-quindici per volta. Per la lunga serie di istantanee trasse spunto da fatti realmente accaduti e da casi giudiziari affrontati in tribunale; solamente al termine verrà l’idea di raggrupparle in un volume pubblicato in forma di Antologia. L’iniziale “La Collina” (che apre anche il lato A del disco di Fabrizio) venne scritta di getto dopo una visita della madre nel maggio del 1914, nella quale veniva rievocato il passato di fatti e persone oramai lontane e per la maggior parte dimenticate da qualche parte della mente. 

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