Dietro a “Non al denaro, non all’amore né al cielo” di Fabrizio De André

Quando la riaccompagnò alla stazione la campana della chiesa locale stava suonando e l’evocativa introduzione strumentale con la quale si entra nella canzone sembra rispettare alla perfezione anche questa immagine. L’“Antologia di Spoon River” tratteggia un affresco riguardante umanità varia che nella propria normale e carnale quotidianità, ossessiona o è ossessionata, nella quasi totalità e in vario modo, dai propri simili. È una galleria di ritratti riguardante astiosi, disonesti, ipocriti, bugiardi, canaglie, calunniatori, rancorosi, invidiosi...tutti prima o poi tormentano o imbrogliano o rubano o tradiscono o assassinano o corrompono o brutalizzano qualcun altro. Dagli apparenti buoni padri di famiglia agli sposi fedeli, dai figli devoti alle fanciulle caste, dai commercianti probi a tutta quella “brava gente” che appariva sempre più o meno apparentemente irreprensibile. Oggi le chiamiamo “storie di ordinaria follia” per assolverci tutti all’interno di una rassicurante “normalità”. I protagonisti, giunti alla soglia della propria dimora eterna, possono infine rivelare senza paure, le loro più crudeli, terribili, spietate verità che sovente gli altri ignoravano o fingevano di ignorare intorno a loro, nelle strade, nelle case, nelle botteghe, nelle chiese. Non si tratta di una collezione di cronache documentaristiche in bocca a degli scheletri, il vero protagonista e profeta che le intreccia e domina è il Tempo, trasfiguratore di vicende ed eventi che difficilmente avrebbero potuto esprimere quando ancora si trovavano nella condizione di umanità emarginata e dominata da dogmi del potere e consueti perbenismi sociali. Il volume ebbe un successo di scandalo clamoroso (80.000 copie vendute nei primi dodici mesi), diventando “libro dell’anno” per ben due volte di fila sul Publisher’s Weekly e colse nel segno sia fra i suoi sostenitori come Carl Sandburg o Ezra Pound, sia fra chi si sentì punto nella propria intima moralità. Perché ovviamente la mancanza di inibizione con cui venivano svelate violenze domestiche, prostituzioni o repressioni sessuali, cozzava violentemente con la perennemente diffusa idea comune di “rispettabilità”. Lee Master finì per essere definito in mille modi opposti, da “pornografo” a “novello Dante”. Le critiche più interessanti riguardavano però la presunta mancanza di rispetto nei confronti dei codici stilistici della poesia corrente all’epoca, ci fu chi la definì “prosa fatta a brandelli”. Ma nel 1930 Sinclair Lewis al momento di pronunciare il discorso di accettazione del Premio Nobel, citerà proprio Lee Masters come iniziatore di una nuova scuola autoctona di poesia statunitense. Ovviamente non mancavano storicamente precedenti letterari, nessuno inventa mai niente di originale completamente dal nulla, molti di questi temi erano già appannaggio del romanzo naturalista di fine ‘800. Comunque, un’intera comunità che confessa senza pudore i segreti della propria vita e i desideri nascosti dietro le apparenze, rappresenta un detonatore
rivoluzionario, una predica potente di indipendenza sociale, anche se lo fa nel ricordo. Esempio massimo risulta il “Suonatore Jones” che attraverso negazione di attrazione (e quindi di dipendenza) da possedimenti materiali, affetti e religione, come forme di controllo e repressione, esprime totalmente la propria libertà ideale. Lee Masters definì l’Antologia “qualcosa meno della poesia e qualcosa più della prosa”, la cronaca racconta che mollerà a quarantasette anni d’età, sull’onda dell’entusiasmo, la professione forense per seguire le proprie aspirazioni artistiche, vivendo al famoso Chelsea Hotel di poeti, pittori e cantanti. Ma finirà deluso, amareggiato fino a morire dimenticato e in miseria nel 1950, senza aver mai più scritto niente di veramente apprezzato. Pubblicherà comunque ben cinquantatré volumi: svariati saggi, sette romanzi e altrettante opere teatrali, cinque biografie, una autobiografia (“Across Spoon River”) e ventinove raccolte di poesie che più o meno nessuno ricorda. Perfino un “New Spoon River” (1924) più accusatorio ma meno ispirato del primo. In contemporanea al libro di Edgar Lee Masters, anche qui in Europa, James Joyce o Marcel Proust stavano inseguendo con le loro parole, prospettive temporali di racconto. Nel 1930, quindici anni quindi dopo la sua pubblicazione, Cesare Pavese si farà spedire dall’amico musicista italo-americano Antonio Chiuminatto, una copia in edizione economica del libro; in quei tempi era impossibile recuperare opere anglofone tradotte in italiano a meno che non fossero risalenti a fine ‘800. L’anno dopo averlo letto, ne pubblicherà il primo di tre saggi su “La Cultura” rivista di filosofia, letteratura e storia, diretta da Arrigo Cajumi, poi soppressa dal governo fascista nel 1936. Definendo l’opera una “polemica antipuritana di ardore puritano...potrebbe anche parere, a sfogliarlo, una rassegna di casi clinici. La differenza sta soltanto nell’occhio del poeta che guarda i suoi morti, non con compiacenza malsana o polemica...ma con una consapevolezza austera e fraterna del dolore di tutti, della vanità di tutti e a tutti fa pronunciare la confessione...” e sottolineando “le innumerevoli sconfitte, gli sforzi, le battaglie e le rare vittorie della vita contro la morte, dello spirito contro il caos, di cui è campo questo villaggetto provinciale che è la terra”. Pavese individua quindi la principale importanza del volume non nella critica sociale ma nell’indagine privata degli individui. Alla domanda della sua allieva al liceo classico Massimo D’Azeglio di Torino, Fernanda Pivano, su quale fosse la differenza tra letteratura inglese e americana, le porgerà da leggere proprio questo volume. Davanti a “...la rivolta al conformismo, la brutale franchezza, la disperazione, la denuncia della falsa morale, l’ironia antimilitarista, anticapitalista, antibigottista…” di quei versi, l’allora ventenne “Nanda” prese a tradurli per fissarli meglio nella mente. Ma senza parlarne con Pavese per
pudore. Quando lui molto tempo dopo, scoprirà per caso in un cassetto, quelle culturali traduzioni in italiano, deciderà immediatamente di proporle per la pubblicazione alla casa editrice Einaudi, di cui nel frattempo era diventato consulente. In quel momento (1943) Edgar Lee Masters era ancora vivo e aveva settantacinque anni. Fernanda Pivano racconterà poi che per aggirare la censura, il titolo inviato al Ministero della Cultura Popolare fascista dell’epoca fu storpiato in “Antologia di S. River” per far intuire la tematica trattasse di un innocuo santo. Il testo tradotto mantiene inalterata una potenza fascinatrice che rende impossibile non visualizzare i personaggi nello svolgersi dei loro tetri racconti autobiografici. Già quattro anni dopo il compositore Mario Peregallo (1910-1996) ne realizzerà un madrigale teatrale per voci, coro, due pianoforti e piccola orchestra, rappresentato alla Fenice di Venezia e poi replicato altrove fino al 1951, dal titolo “La Collina”. Ma negli anni ‘60 anche Paolo Stoppa alla televisione italiana interpreterà lo sceneggiato “Spoon River” e voci illustri lo reciteranno, registrati in vinile: Arnoldo Foà, Elsa Merlini, Paolo Carlini, Vera Gherarducci. Dalla prima pubblicazione delle traduzioni, nuove edizioni si sono susseguite, al punto che c’è chi sostiene sia il libro di poesia maggiormente letto in una Italia che scoprì così quale tragicità di vita quotidiana si celava dietro la cinematografica facciata ottimistica americana. Le voci severe, sincere e spietate di protagonisti senza futuro che declamano l’epitaffio di sé stessi, rappresentano liricamente, specchi psicologici senza appello per giudizi e memorie. Fabrizio De André dopo averlo letto all’età di diciotto anni (per merito del padre), ne scelse a trent’anni compiuti, una piccola parte da ampliare e musicare per farli diventare canzoni da incidere nel suo prossimo disco. Entrate oramai nell’immaginario collettivo al punto che, a distanza di più di cinquant’anni da quel 1971, sembra ancora di veder balzar fuori in carne e ossa queste anime nude dalle note, ogni volta che ascoltiamo la voce del compianto cantautore. Il quale, dal canto suo, forse un po’ si sarà anche immedesimato nei versi de “Il Suonatore Jones” a cui mette in bocca in conclusione de “La Collina” una personale rivisitazione della quartina del poeta, matematico e astronomo persiano ʿUmar Khayyām (1048-1131) che recitava: “Pien di stupore son io pei venditori di vino, ché quelli che cosa mai posson comprare migliore di quel ch’han venduto?” del tutto assente nella poesia originale. Jones è anche l’unico personaggio che nella riscrittura deandreiana mantiene il nome
all’interno del titolo. La finta-intervista della Pivano a Lee Masters che accompagna l’album (lei si recherà negli Stati Uniti solamente nel 1956 quando era già deceduto da sei anni) suggerisce che dietro le poesie si celino due cittadine dell’Illinois: Petersburg sul fiume Sangamon (dove lo scrittore trascorse l’infanzia e i nonni possedevano una fattoria) e Lewistown, sul fiume Spoon (in cui l’autore passò invece l’adolescenza a partire dall’età di undici anni). Nel cimitero della prima (chiamato Oakland o Oak Hills) sono effettivamente sepolte una discreta parte delle genti citate mentre le atmosfere della collina e del cimitero della seconda, evocano le descrizioni dei racconti. L’unica cosa davvero certa è che sia Petersburg che Lewistown interdettero astiosamente a Lee Masters i propri territori, quelle piccole comunità tipicamente borghesi-contadine non sopportarono il modo in cui erano state pubblicamente raffigurate. Edgar da bambino si fermava a leggere le iscrizioni tombali andando alla messa assieme alla nonna paterna, che finirà anch’essa nel libro (Lucinda Matlock). Da adulto dichiarò di aver preso “i barattoli di pomodoro vuoti dei morti di campagna per riempirli con le acque del macrocosmo”. La trasposizione da poesia a canzone, per nove di loro, resa da Fabrizio De André e dai suoi preziosi collaboratori li ha, a mio parere, arricchiti, attualizzandoli e delocalizzandoli. Ha travalicato una realtà specifica trasformandola in universale, permettendo alle parole una simbiosi che le ha rese immortali, quali sono in effetti le dinamiche di cui argomentano e travasandole in realtà più vicine a quelle europee. L’infermiere cattolico diventano quindi due guardie (Un Blasfemo), un parto si trasforma in aborto (La Collina), il farmacista muta in un chimico mentre l’ottico viene definito “spacciatore di lenti”, un po’ sulla falsariga del celebre Signor Tamburino di Bob Dylan. Le frasi perfettamente modellate in italiano e le loro rispettive melodie le hanno fissate indelebilmente nelle menti e nell’immaginario, quasi si trattasse di fatti reali accaduti in luoghi a noi prossimi e familiari. Ogni figura si allontana dalla propria realtà originaria per caricarsi di simbologia. Anche il passaggio di un singolo personaggio con relativo nome e cognome (il titolo di ogni paragrafo) a rappresentante anonimo di un’intera categoria di persone, altro non ha fatto che avvicinare gli eventi. Le vicende non tralasciano la storia societaria trascorsa ma non tradiscono neppure lo spirito individuale. Essendo da sempre le canzoni di Fabrizio un continuo rincorrersi di colpi di genio misti a citazioni, parafrasi e rimandi non c’è da stupirsi della sua intensa fascinazione per
quest’opera, che Fernanda Pivano una volta ebbe a definire efficacemente “Bibbia del pessimismo”. Il libro con le sue forme talora romantiche, patologiche o libertine, funge da ispirazione, da linea-guida per le intuizioni contenute nelle rivisitazioni. Le quali, tra dissimulazioni e svelamenti, ampliano le sintetiche poesie di Lee Masters, ponendole all’interno del racconto in una loro nuova vita, immaginata e cucita tenendo conto degli avvenimenti anche politici a cavallo tra i ‘60 e i ‘70. Tutto ciò conferisce un arricchimento globale di grande forza letteraria, attualizzano e circondano di lirica italiana, testi che avevano all’epoca oltre mezzo secolo. Questa abilità di De André ha fatto si che il disco non sia invecchiato di un giorno e alcune fulminanti verità che enuncia risultano attuali oggi come lo erano ieri. Le loro storie di vita vengono percorse sulla progressione del filo degli anni e l’ultima strofa di ogni canzone non ripete quella iniziale, in modo da sottolineare il trascorrere del tempo. Nei sentimenti differenti in cui si dibattono gli animi dei protagonisti, l’Autorità non arriva mai e quando lo fa è meramente attraverso violenza, abuso, insensibilità, delineando di fatto una democratura e manifestando la propria incapacità nella gestione della società, oltre che inadeguatezza a soddisfare i bisogni della gente. In questo senso si possono considerare queste canzoni di Fabrizio, un suo ulteriore manifesto poetico di lotta contro le torbide e squallide manifestazioni del potere. Così come ne “Il Blasfemo” non viene persa l’occasione di ribadire il proprio concetto di “umanizzazione” della divinità, attraverso l’utilizzo di una "invenzione di Dio", del tutto assente in Lee Masters che fa invece riferimento alla crocefissione. In questa canzone Fabrizio inserisce una personale rilettura del terzo capitolo della Genesi (La Caduta) per sottolineare la censura alla quale la parola del protagonista viene costretta, di ciò non si può che ritenere artefice l’uomo, non certo Dio, liberatore sommo. Il disco si colloca in effetti tra la “rivoluzione ideologica” dei Vangeli Apocrifi espressa da “La Buona Novella” dell’anno prima e la cronaca della presa di coscienza di un borghese, tra individuale e collettivo, descritta in “Storia di un Impiegato” due anni dopo. Quando in mezzo a scontri di piazza sessantottini, stragi terroristiche e anni di piombo, il protagonista affronterà cosa significhi davvero far convivere dentro di sé ideologia e proprio metro interiore. André Breton sosteneva a proposito della funzione dell’arte e dell’artista nella società, che la
poesia non può essere neutrale ma azione creativa in favore di una coscienza critica che porti l’individuo ad avere approcci diversi nei confronti della realtà e di conseguenza al cambiamento. Alcune canzoni hanno avuto vita propria anche al di fuori del concept-album, quella dell’inflessibile e vendicativo giudice Selah Lively su tutte, con la sua assoluta assenza di riferimenti a una qualsivoglia forma di empatia. Pure perché quello del giudicare risulta sempre nervo scoperto di ogni società e argomento centrale in molte liriche di De André, prima e dopo di queste. È noto che lui non nutrisse alcuna fiducia nella giustizia umana, ritenendola essenzialmente “vendicativa”, traente origine e ispirazione dal mito, quando non da leggi create a immagine e somiglianza delle classi di potere privilegiate e come tale dimostrazioni prevalentemente della loro forza. Il valore aggiunto di quel suo timbro vocale così amato, le ha rese epiche e indimenticabili, tanto più se consideriamo che gli scritti di partenza di Lee Masters non contenevano la benché minima musicalità. Al posto dei nomi e cognomi Fabrizio scelse di etichettarli così come erano pubblicamente conosciuti, che in alcuni casi corrispondeva al loro lavoro e in altri all’appellativo che li identificava in quella realtà di provincia. Nel libro sono definizioni simboliche più che descrittive. Parole che raccontano sogni frantumati, vanità tossiche, gioventù perdute, relazioni proibite, casualità feroci, sincerità rigorose "si dovrebbe esser morte del tutto quando si è morte a metà e non fingere la vita, non truffare l'amore" (Pauline Barrett). De André aveva già cantato l’amore incompiuto di Marì e di Ninetta, quello appassionato di Bocca di Rosa, l’appagante di Barbara, il vigliacco di Re Carlo, l’illuso di Via del Campo, il fiabesco di Marinella, lo straziato di Maria sotto la Croce. Avrebbe cantato in altre occasioni anche quello sanguinario, esacerbato o perduto ma nel generale e spietato contesto di anaffettività di questo disco, l’amore non può che risultare evasivo o rivendicativo, solo raramente appare in una forma pura come quello di Francis Turner (Un Malato Di Cuore) che per esso decide, senza più scegliere di risparmiarsi, di affrontare il rischio estremo, placando per un attimo la sua fame di sentimento e trascendendo ciò che gli era consentito. Pur non trattandosi di vere e proprie “murder ballads”, in ogni caso il finale è sempre comunque una tragedia. La canzone più “progressive” del disco (in verità, un po’ fuori sintonia rispetto alle altre, sia come costruzione che come sonorità) è “Un Ottico”. All'inizio della quale compare un’invenzione testuale di De André/Bentivoglio in cui il protagonista si improvvisa banditore, poi faranno seguito le testimonianze di quattro fruitori che raccontano i mondi lisergici che a ciascuno di loro, attraversano la vista, grazie alle lenti dei nuovi occhiali. Nell'originale i clienti di Dippold vedono a turno, genitori, cavalieri, donne meravigliose e disponibili, cieli estivi, spazi vuoti...in un caso “metafisico” gli occhi “sfuggono di là dalla pagina”. L'epoca storica di De André lo porta ad associare invece queste "visioni" agli effetti dell'LSD mentre sicuramente Edgar Lee Masters le legava a più innocenti fantasie di luce e evasione dall’opprimente piccola realtà circostante. Non va dimenticato che le droghe pesanti avevano falciato a raffica nei mesi di
registrazione del disco, tre dei protagonisti del rock mondiale: Jimi Hendrix, Jim Morrison, Janis Joplin. Al termine dei lati (tematizzati “invidia” e “scienza”) vengono collocate come segno di speranza, le due figure dalle candide anime che rappresentano una “positività”, le uniche a non fallire cedendo a pulsioni di ambizione, superbia, vigliaccheria, competizione o conformismi. Un malato cardiaco che per un unico bacio decide di giocarsi la vita intera e Jones che si rifiuta di coltivare le terre ricevute in eredità sposando la musica. Fabrizio elimina nella riscrittura anche i vari riferimenti riconducibili ai luoghi reali delle poesie, così da narrare il dramma umano di ciascuno, valorizzando unicamente l’interiorità di personaggi mossi dalle proprie aspirazioni o timori. Figure che sono tutte maschili, nonostante nel volume originale non manchino certo le donne e una discreta parte della fama di cui De André aveva goduto negli anni ‘60, gli derivasse da ritratti femminili. Le atmosfere di “Non al denaro, non all’amore, né al cielo” riescono a far immaginare un’ipotesi di proiezione liberatoria sia individuale che collettiva. In ogni caso riassumono molto di ciò che componeva il mondo ideologico, politico, scientifico e giovanile italiano (e non solo) di quegli anni. Anni di tentativi di aggiustamenti sociali tra lotte di classe/operaie/studentesche e pacifismo, temi tutti contenuti nel disco che contribuirà non poco al formarsi del mito di Fabrizio. Che, restituendo valore e visibilità all’Antologia, ne riceverà altrettanta, come in un immaginario principio artistico di vasi comunicanti. Spoon River pur non essendo il nome di un luogo reale, ha oramai definitivamente titolo di esistere nella Terra della Fantasia e rappresenta per De André un passaggio dal periodo di scrittura favolistica iniziale a uno seguente più realista. Dagli inizi nei quali dichiarava che per lui “ascoltare Brassens equivaleva a leggere Socrate” e dove quasi in ogni canzone comparivano fiori, alla concreta “Storia di un Impiegato”. Molti anni dopo il disco di Fabrizio, sedici di queste poesie tradotte videro una prima, al Teatro Nuovo di San Babila a Milano, in un nuovo trattamento musicale da parte di Giuseppe Negretti con accompagnamento della Brescia Dixieland Band. Morgan ha invece operato nel 2005 una calligrafica rilettura integrale del vecchio disco di De André, dai risultati invero troppo filologici. Altri esempi si sono succeduti tra cui uno di grande impatto emotivo creato da Riccardo Massai direttamente all’interno di alcuni cimiteri monumentali della Toscana (dal vivo, a ingresso libero e replicato negli anni 2006/2007/2010) con l’ausilio di una polifonia di voci recitanti. La stessa Pivano ha narrato in “Spoon River, ciao” (2006), assieme al fotografo William Willinghton, i segreti di quegli amori "reali o
immaginari che stregano le anime che li accolgono nei loro sogni". Fernanda riteneva la voce dai toni bassi e ben scanditi di Fabrizio fosse altrettanto importante che le sue parole, definendola “voce che viene dall’inferno”. E così grazie a una catena collettiva che ha attraversato i decenni, non è stata dimenticata questa popolazione di senza pace del sottosuolo, abitanti un tempo di un piccolo mondo nordamericano in controluce, dove qualcuno li aveva defraudati di qualcosa di importante dall’estratto conto della propria esistenza. I morti della “Antologia di Spoon River” risultano “più vivi che in vita” come sagacemente ebbe a sottolineare Cesare Pavese. Intanto, sospeso infinitamente fra realtà e immaginazione, Edgar Lee Masters dorme il suo sonno “sulla collina” di Petersburg, proprio accanto all’amata nonna Lucinda. 


Flavio Poltronieri

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