Sono passati ventitré anni per avere il ritorno discografico di una delle band più interessanti degli anni Novanta. Stiamo parlando dei trevigiani Estra, capitanati da Giulio “Estremo” Casale (voce e chitarra), Abe Salvadori (chitarre, tastiere, cori), Eddy Bassan (basso, cori) e Nicola “Accio” Ghedin (batteria, percussioni). Finalmente un nuovo disco intitolato “Gli anni venti” (produzione artistica degli Estra con Giovanni Ferrario, editing, gestione, produzione esecutiva, foto di copertina e artwork di Marco Olivotto), che contiene undici tracce e realizzato con una straordinaria campagna di crowdfunding. La voce recitante di Marco Paolini (sopra al tappeto dell’orchestra regionale filarmonica veneta che esegue la marcia funebre dalla sinfonia n 1 in re maggiore di Gustav Mahler) apre le danze con “La Signora Jones”, che lascia il passo ai ritmi frenetici e alle chitarre taglienti di “Fluida Lol” (“E lei contiene tutto in una nuova isteria, cercandosi allo specchio dopo la darkeria, dopo aver bruciato borse trucchi e profumi, dopo diciott’anni di puttane sui muri, non so non so che cazzo sia l’amore”). Tastiere ostinate martellano “Gli anni venti” (“Dio, Patria e lei distorti dal megafono, la povertà girava sul grammofono, la verità celata imperscrutabile, la mia natura violata in modo ignobile, erano gli anni venti, la regressività, le guerre tra gli ulivi, la pace con i gas”) che esplode di colate elettriche, riff di chitarra e orecchiabilità sottolineano “Che n’è degli umani?” (“Ed eccoci qui aggrappati ad un filo, ma se guardi bene il filo è spinato, delusi e accecati dal secolo al Nero, ognuno ego fisso e pure frustrato, domandami ancora che n'è degli umani? I santi in galera e fuoco alle navi, ma quello che manca di brutto per tutti è Irina, Irina Prijović”). “Nessuno come noi” (“Stasera siamo in pena per tutti i migranti, tanti randagi e transumanti, i figli dell’Italia al di là del mare, a lavorare, ma poi mi canti forte le danze ungheresi, vedi sei sempre lì e poi mi gridi in faccia che il futuro è Brahms, il futuro è Brahms! Il futuro è Brahms!”) sprigiona energia, in “Ti ascolto” ("Io ti ascolto, ti sento, sei bello e tormento, sei bello e dannato, ti senti schiacciato, hai voglia di dire, di lasciare un segno, sapessi scolpirla una croce nel legno, hai voglia di urlare, faresti a cinghiate, le scarpe però le vuoi sempre firmate”) si sente più sperimentazione. “Lascio Roma” (“Lascio Roma e i suoi schiavi caproni, lascio Roma e i cinghiali a pensione, lascio i Fasci e le corporazioni, lobby, mafia in qualsiasi versione, non ho valigie, non è il mio stile, non guardo indietro e non piango, vedo il confine, le stelle alpine, tra poco rilascerò”) è un'altra botta di adrenalina con un basso quanto mai incisivo, “Nel 2026” (“Noi si vuole andare avanti, tanti o pochi, luceoscurità, qui non si vive che d’istanti, bianchi, stanchi, sprassolati, se il nostro tempo ha una mania, è tirannia, è troppa roba, la cultura regressiva stira е ammira, il vuoto che c’è qua, il vuoto che c’è qua”) è un rock trascinante. Più teatrale è “Il peggiore” (“Il futuro è già scritto, il futuro è rubato, il futuro era un furto bene architettato, il domani è per chi si è già uniformato, si è già uniformato e il dolore peggiore è non sentire dolore, il dolore peggiore è non sentire più dolore”) dove emergono le doti attoriali di Casale, invece “Monumenti immaginari” (“È come respirare un tempo santo dell’ingenuità e insieme profanare il tempio vacuo dell’Iper-realtà, alzando monumenti immaginari a la fragilità, tenendo dentro il petto tutta un’altra idea di libertà”) ha interessanti cambi di tempo. In chiusura troviamo l'affascinante “Notte poi” (“La mia patria ha un chiodo in gola, connessione e rete umana in down, tu che farai per resistere, tu dove andrai, gli ultimi storti siamo noi, gli ultimi storti siamo noi”), arricchita dalla voce recitante di Pier Paolo Capovilla. La band è in ottima forma. Si sente dagli arrangiamenti penetranti, sempre adatti a pennellare i testi ruvidi, provocatori, lucidi e attuali, che Casale sottolinea ulteriormente con il suo istrionismo. Questi anni di silenzio sono serviti per maturare e per tornare più ispirati che mai. Ne avevamo bisogno della voce libera e corrosiva degli Estra! Buona strada!
Marco Sonaglia
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