Alan Stivell, il figlio di suo padre

Nel 2023 Alan Stivell ha pubblicato la sua autobiografia arricchita di più di duecento fotografie dall’archivio personale “Stivell par Alan – Une Vie, la Bretagne, la Musique - Ur Vuhez, Breizh, ar Sonerezh” (Editions Ouest-France). L’ha fatto al fine di rintracciare il proprio percorso globale, non solo sonoro ma del suo intero celtismo, a quasi ottanta anni e senza aver ancora imparato a scegliere “tra lo zen e l'ardore, tra la frusta della tempesta e il fruscio della corda di un'arpa bardica, tesa tra terra e cielo”. Conservando memoria della sua prima infanzia quando continuava a ripetersi mentalmente le tremila parole bretoni e gaeliche che conosceva, per non dimenticare mai di pensare “celtico”. È partito dalle cornamuse che suonavano per strada in mezzo al traffico di quand’era ragazzo e leggeva che un tempo il sud della Scozia si estendeva fino alla Cumbria, irradiando il territorio attuale della Bretagna. Sentiva che Scozia e Irlanda erano in grado di donare equilibrio ai due grandi poli magnetici di Bretagna e da allora ha sempre creduto che la cultura gaelica non rappresentasse una minoranza. Il libro è un'occasione imperdibile per ripercorrere i quasi cinquanta anni di carriera discografica di questo gigante della musica europea che ha integrato l'arpa con ogni tipo di strumento, abbattendo barriere stilistiche e pregiudizi come solo i grandi jazzisti afroamericani hanno saputo fare. Alan Stivell è il Merlino della sua epoca, certamente un Merlino di carattere timido, più incline ad arrossire che ha spargere superbia da dietro l’arpa. Ma non è certo poca cosa aver unificato nel revival il suono di una “musica celtica” (notazione di sua invenzione) che era forse nell'aria ma che portava innanzitutto dentro di sé. Non ha avuto nemmeno bisogno di ideare troppo in realtà, tenendo in mano fin da bambino, mille anni di musica adagiata sulla pelle della cornamusa, nei fori della bombarda e tra le corde dell'arpa che gli aveva costruito il padre Jord nel 1953. Qualcuno in Francia scrisse perfino che aveva approfittato della cosiddetta “vague bretonne” degli anni ‘70. Un’onda che seguiva quella irlandese ma che non era affatto nata da una moda quanto piuttosto da qualche pionieristica voce solitaria, animata principalmente di fervente passione. Per ciò che lo riguarda si 
trattava di qualcosa probabilmente, come già accennato, derivante anche da eredità genetica. Pure il cambio volontario del cognome originale da Cochevelou a Stivell (Sorgente), parrebbe disegnare, nell’immaginario, un qualche ruolo predestinato, quasi si trattasse di un moderno Taliarco vivente, spostato dall’antica scena latina a quella bretone contemporanea. La maggior parte dei successi planetari che abbiamo conosciuto e amato all’istante (“Pop-Plinn”, “Suite Sudarmoricaine”, “Tri Martolod”) erano in realtà composizioni o arrangiamenti scritti in adolescenza, quando non aveva che quattordici anni e di cui conserva tuttora i fogli originali scritti a mano. La prima con la sua apertura di chitarra elettrica fortemente voluta e “imposta” a Dan Ar Braz, seguita da batteria e organo di Pascal Stive, conduceva il folk verso tonalità lontane da quelle primitive, offrendo un originalissimo manifesto popular-rock. Ad arpa e bombarda il compito sonoro di mantenere alto il vessillo folk della cultura bretone. Prima di ciò non esisteva niente di quello che verrà presto definito "rock celtico". In origine il plinn è una danza (dans tro plin) del centro-ovest della regione e si estende su una zona geografica che copre il sud delle Cotes-d'Armor. Si parte con due piccoli salti a piedi uniti, alternati tra sinistra e destra e nel Pays Bretonnant viene accompagnata da cantanti di kan ha diskan mentre nella zona Gallo a farlo sono una classica coppia di suonatori di bombarda/biniou. Passando all’altrettanto fortunata “Suite Sudarmoricaine” possiede un testo nel continuum linguistico Kerne-Leon-Treger e c’è da supporre che Stivell si sia vergognato non poco a
cantarlo, confortandosi unicamente col fatto che la maggior parte del pubblico internazionale non comprendeva le parole. Eppure, è finita ben presto in vetta alle hit-parade europee! Quanto a “Tri Martelod”, diventato anch’esso un successo radiofonico e televisivo, si tratta di una ronde a trois come se ne trovano tante sulla costa di Bretagna, soprattutto nella Cornovaglia del sud. Alan la introduce all'arpa con le corde di metallo e immediatamente l'ascoltatore ne è conquistato; anche nello storico concerto all’Olympia ‘72 durante quel brano, la sala intera si alzò improvvisamente a ballare coinvolta in una manifestazione liberatoria, vorticosa, sensuale. Ancora nel 1998, l'effimero e furbo gruppo musicale Manau se ne è impossessato per inciderla sotto il titolo “La Tribu de Dana” e vendere all'istante, grazie al suo ritmo, due milioni di dischi. La musica bretone è una di quelle provenienti da civiltà europee orali e rurali, sopravvissute nonostante l'influenza della cultura scritta cittadina. Negli Stati Uniti il rock è stato un fenomeno urbano più consequenziale, un’evoluzione naturale della musica tradizionale popolare blues, country and western che la musica nera ha abbondantemente nutrito. Per l’Europa è stato decisamente diverso. Ma dopo la comparsa di Stivell sulla scena musicale la “vague bretonne” e celtica in generale è montata sempre più e non solo in Francia. Alan però non era un artista alla ricerca superficiale di effimero successo pubblico, quanto piuttosto un essere umano riflessivo per indole, che si poneva continuamente interrogativi sul percorso da seguire, del tutto coinvolto nella propria coerenza. Non erano parole vane o a effetto, quando scriveva: “Riprendere i cammini di terra prima di imbarcarsi per le isole” sulla copertina del suo terzo disco del 1973. I “Cammini di Terra” sono quelli del legame profondo con le radici, della fedeltà alla propria tradizione ma inevitabilmente...conducono altrove: dal tradizionale al folk, dal folk alla modernità dei suoni elettrici contemporanei. Non ha mai voluto fare musica da museo, non è la nostalgia del passato a interessarlo ma un suono in grado di rappresentare compiutamente il flusso della propria epoca. A tal fine ha senz’altro avuto bisogno di “concessioni” al mercato poiché sapeva che restando nell'ombra, le sue idee sarebbero rimaste ignorate. Ha partecipato a programmi televisivi, gala di
“Libération”, feste de L'Humanité, poiché “Solamente diventando un personaggio si viene considerati, io appartengo a una civiltà e a un'epoca, ebbene, le utilizzo entrambi...la musica celtica è di una ricchezza eccezionale, la gente ha impiegato molto a credere in lei e lei li ha sorpresi e li sorprenderà ancora. La gente viene sempre sorpresa dalla realtà”. Il mondo moderno aveva iniziato dall’avvento della radio, a imporre nuove estranee forme di musica da considerarsi popolare in maniera artificiale mentre Stivell intendeva partecipare a creare una reale alternativa a questo stato di cose. L’album dal vivo a Dublino vendette 150.000 copie in un anno e due milioni in totale, la sua musica si poteva ascoltare normalmente nei supermercati francesi, diffusa mentre si faceva la spesa con carrello e bambini. In Bretagna, in piena effervescenza i giovani si riappropriavano di radici lungamente interdette o sconosciute, attraverso la cultura regionale formavano ovunque gruppi musicali, alcuni presto diventavano conosciuti quali Diaouled Ar Menez (I Diavoli Della Montagna) o Ar Sonerien Du (I Suonatori Neri). Per molti era qualcosa di antico che improvvisamente riaffiorava in superficie, come se François-René de Chateaubriand riprendesse vita e, ancora a maggior ragione, tutti gli eroi leggendari della storia passata come Nominoë o il Marchese di Pontcallec. L’an dro non era più il “ballo dei buzzurri”, nonostante solo poco tempo prima un famoso quotidiano parigino, scandalizzato dalla notizia del concerto nel 1972, titolasse ancora “Gli straccioni all’Olympia”. In Bretagna era iniziata un’ecologia politica, un soffio di socialismo democratico, di solidarietà, la rinascita della sensibilità bretone che agli inizi anni ‘70 si collegava direttamente alle lotte francesi del maggio '68. Le nuove canzoni parlavano di battaglie agricole, rifiuto a istallazioni militari, sfruttamento lavorativo, progetti di centrali nucleari, disastri ecologici senza dimenticare suicidi,
alcolismo, sottosviluppo o emarginazioni varie. L’intera regione brulicava di cooperative, "una regione di città marinare, di vetro, granito, acciaio, maree e pane" la definiva al tempo Alan Stivell. Anche la giovane generazione di poeti bretoni non separava la propria poesia dalle lotte del popolo al quale apparteneva, ne rivendicava la lingua e reinventava il mito bretone all'interno di un altro secolo. E, coerentemente con le sue idee, anche la sequenza cronologica del percorso evolutivo sonoro dell’arpista passava sempre più, a tappe, dal folk al rock. Ogni tournée testimoniata su disco veniva però intervallata dalla rappresentazione di fasi introspettive che recuperavano la profonda poetica del suo strumento musicale. Il disco “Raok Dilestra” (Prima di Accostare) del 1977 fu addirittura diviso in due facciate distinte e contrapposte anche musicalmente: la prima consacrata al passato storico degli antichi Celti e dedicata al sommo Glenmor (da poco defunto e accompagnando il quale il giovanissimo Stivell aveva fatto alcune delle sue prime apparizioni in disco) e la seconda ai tempi presenti. L’intento dichiarato della facciata A era di contribuire alla liberazione da “una storia falsificata dalla borghesia francese”, quello della B di contribuire alla “decolonizzazione della Bretagna dalla Francia” e in questo senso vanno interpretate, ad esempio, le parole originali in bretone della canzone militante “ Naw Breton ‘ba’ prizon” (Nove Bretoni in prigione), peraltro non riportate nella copertina dell’edizione francese a differenza di quella anglosassone, tedesca o italiana (“...Uguaglianza, Fraternità, Libertà diventano un insulto se pronunciate nella lingua dei Bretoni…potete pensare che queste mie parole non valgano nulla poeticamente ma non ci sarà primavera né in Bretagna né altrove finché socialismo e libertà non vinceranno...”). Pubblicato nel periodo in cui era boicottato dalle ottuse radio francesi, il precedente 45 giri relativo mostra (forse con un po’ di provocazione) in copertina una foto di Stivell sul palco della
Royal Albert Hall di Londra, chino sull’arpa come in una spirale di creatività, quasi abbracciandola, alla sua destra Dan Ar Braz alla chitarra acustica e Dave Swarbrick al violino. Entrambi presenti in “Raok Dilestra”, assieme anche ad altri nomi prestigiosi della scena inglese quali il fiatista Lyn Dobson (The People Band, Third Ear Band, Soft Machine) o Richard Harvey (Gryphon). Sorte singolare in Francia per un artista che solamente in quell’anno conduceva una trionfale tournée di quindici date in Australia (l’ultima con Dan Ar Braz, desideroso di realizzare il suo primo disco solo), suonando poi a Dublino assieme ai Chieftains, in Canada, al primo festival di Daoulas nel Finistère, a Bruxelles, in Germania e in svariati altri luoghi. Ma anche tra il ‘75 e il ‘76 episodi di sabotaggio politico avevano impedito lo svolgersi di numerosi concerti all’aperto in Belgio e nei paesi anglosassoni, a causa del blocco imposto dalle autorità doganali francesi alla strumentazione del gruppo. L’altro lato del singolo “Gwriziad Difennet/Racines Interdites” (Radici vietate) denuncia l’impossibilità di avere accesso all’insegnamento della lingua e diventerà anche il titolo di un suo libro edito nel 1979 e scritto con Marc Legras et Jacques Erwan. Quello di Stivell ha rappresentato una specie di romanticismo rivoluzionario, a riprova della sua timidezza già dopo i primi successi commerciali e le tournée, l’arpista aveva sentito il bisogno di riparare nella dimora degli avi paterni, a Langonnet nel Morbihan. I suoi Cammini di Terra in quegli anni dovevano passare anche dalla determinazione tranquilla dei boschi, da
una casa vecchia, bassa e grigia, fatta di grosse pietre e in mezzo a un paesaggio desertico. Si stabilirà infatti a Kerlazen (Langonnet) in una fattoria del XVIII secolo non lontano dal fiume Ellé. Per lui la sopravvivenza di una lingua era questione di qualità della vita, vivere in Bretagna ma viverci in bretone significava preservare una società di tradizioni comunitarie e democratiche anche nel rispetto del nuovo equilibrio ecologico. Solamente lontano dalle scene poteva comprendere le tappe del proprio percorso cultural/musicale che opponeva radici celtiche a razionalismo o materialismo di estrazione latino-tedesca. Sognava di fare, partendo dalle cristalline tessiture dell’arpa, un folklore al pari di quello di Mozart, Elvis Presley o Ravi Shankar. La sua dichiarata intenzione era di far accettare la musica bretone al pari di tutte le altre, all’interno di una musica popolare di matrice europea, attraverso strumenti che molti definivano archeologici. Stivell ha mescolato i suoni antichi e moderni con indubbio gusto musicale (a iniziare da fine secolo scorso un po' meno, in verità!), disperdendo nell’aria attimi di incanto, fondendo le credenze cristiane a quelle pre-cristiane in un utopico “Spirito Universale”. La sua musica sposava organo e bombarda, invitando al matrimonio chitarra elettrica, bagad, mellotron, bagpipe, arpa. Il manifesto programmatico di “Delivrance” (1975), che apre a una utopica fratellanza con gli altri paesi celtici prima e col mondo intero poi, proviene da una Bretagna “indipendente”, intesa come “liberata”. Questo gli è valse censure e critiche feroci dalla destra francese che difendeva all'epoca (apertamente o meno) modelli
societari quali franchismo spagnolo o dittatura cilena di Pinochet ma anche le povertà africane o guerre coloniali come quella indocinese. Alan non ha mai messo da parte comunque la dimensione poetica, situando Keltia tra un vecchio e un nuovo mondo, e neppure quella utopica che, senza linee stradali, ferroviarie o marittime, può collegare facilmente suonatori plinn con Berberi, Tibetani o Algonchini. “...Torret o deus hor c'hleuzioù kozh/Tra ne harzho ouz'n an avel/A c'hwezh eus kreiz ar meurvor/Beteg minezhioù Kernew-uhel/War minezhioù Kernew-uhel (...Hanno abbattuto le nostre antiche scarpate/Niente fermerà il vento/Che soffia dal largo dell'oceano/Fino ai monti dell'Alta Cornovaglia/Sui monti dell'Alta Cornovaglia) 1. Risulta abbastanza sorprendente come la rivoluzione musicale nantese (precedentemente indagata sulle pagine di Blogfoolk), corrisponda esattamente al suo contrario nel caso di Alan Stivell. Un giovane sconosciuto che alla fine degli anni Sessanta si presentava sul palco aperto del Centro Americano parigino di boulevard Raspail, con in mano unicamente un'arpa bardica. Opponendosi con dolcezza alla diffusa convinzione occidentale europea di quegli anni che rivoluzione significasse suonare come avevano fatto Guthrie e Seeger a New York nel decennio precedente. Invece questo bretone, modesto e riservato, non imitava nessuno, non imbracciava chitarra o banjo e dimostrò in un attimo che si poteva suonare quello che si amava anche in una lingua totalmente sconosciuta all’ascoltatore. Lo fece presentando gwerz come, ad esempio, quello della triste “Jenovefa”, suicida per amore, lamento imparato da tre anziane sorelle (le Goadec) e cantando nel dialetto incomprensibile di Tréguier. Penso esistessero a quell'epoca in tutta la Francia poco più che un paio di folk club (Le Bourdon a Parigi, La Chanterelle a Lione) e ben poche persone, fuori di Bretagna, conoscessero i tesori musicali contenuti nella raccolta del “Barzaz Breiz”, vero
e proprio scrigno di metafisica celtica. Dopo la partecipazione al festival folk a Lambesc (16/8 agosto 1970), il primo in Francia, inizieranno i monumentali dischi di Stivell, che in un paio di anni conquisterà l’Olympia di Parigi, anche grazie ai voli “hendrixiani” della chitarra elettrica di Dan Ar Braz, la sua opera continuerà a ricordare che la musica tradizionale bretone non può venire sorpassata né dalle mode del folk né del pop celtico. Anche in un mondo dove popoli e culture fossero uguali e comunicassero attraverso una lingua unica, per avere qualcosa da dirsi e da scambiarsi, bisogna pur sempre possedere una angolatura differente da cui guardare l'Universo. Il che riporta inevitabilmente al bilinguismo e alle indispensabili pluralità culturali. Per lui "un autentico celtico deve essere in grado di fare musica celtica sia con una padella che con una tastiera elettronica". Il suo visionario tentativo globale è stato quello di creare la musica popolare degli anni duemila. Una volta nella vetrina di un negozio musicale parigino ho letto un cartello: “Se avete intenzione di comperarvi una bombarda o un biniou kozh, spiacenti, sono esauriti ma di arpe se ne trova ancora qualcuna. Affrettatevi prima che la Bretagna e la sua musica passino di moda!” Ma non si trattava per niente di una moda senza domani! Se sovente in Francia tutto è finito in una canzone, in Bretagna tutto, al contrario, è ricominciato con canzoni e musica. Paradossalmente il seduttivo Alan Stivell cantando in dialetto, ha fatto più scalpore di Glenmor e Servat che lo facevano in francese, appositamente per far intendere bene da tutti le loro agguerrite parole rivendicative. Seppur l'intento comune era la salvaguardia dell'identità bretone, affermare quello che si è, trasmettendo la ricchezza della civiltà celtica attraverso uno strumento come l'arpa, desueto da quattro secoli, ha tirato fuori dall'oblìo una
musica etnica perduta e fino ad allora, giudicata puro folklore, facendola diventare di interesse europeo. Già nel giugno di dieci anni prima i Moody Blues lo avevano invitato ad aprire un loro concerto alla prestigiosa Queen Elizabeth Hall di Londra. E, in effetti, anche vedere alle due del mattino, Joan Baez a piedi nudi ballare la gavotta e l’an dro per mano con lui nella “piazza rossa” di Lorient nel lontano 1978 (ottava edizione del Festival interceltico) dopo il proprio concerto allo stadio di Moustoir, conferì a molti un certo effetto di soddisfazione 2. Il pubblico, come si sa, spesso è tiranno e pretende dai propri eroi musicali esattamente quello che desidera, che vengano soddisfatte e non tradite le proprie aspettative e, in caso contrario, non perdona facilmente. Ma un artista dagli ideali puri non si sente schiavo di ciò in cambio di gratificanti applausi, Alan è rimasto unito al padre Jord (morto alla fine del 1974) da un progetto culturale comune e ambizioso che aveva fatto nascere tra loro uno scambio, una osmosi non lontana da quella di cui magistralmente scriveva il poeta Louis Aragon: "...tra i sogni e la coscienza che si sveglia non si riconosce quale pensiero venga ancora dal sonno attraverso una membrana...". L'arpa in Bretagna aveva violentemente cessato di esistere fisicamente da secoli, Jord, pur non essendo un musicista, ebbe la geniale idea di farla rinascere unicamente a fronte delle immagini che la raffiguravano. Ai preliminari, iniziati nel 1942, si aggiunsero alcune preziose informazioni fornite durante la guerra a Clermont-Ferrand, dal Professor J.-M. Hamonic. Una decina di anni dopo il volitivo uomo iniziò la costruzione del primo prototipo di strumento che, una volta realizzato, venne suonato la prima volta dal giovanissimo figlio Alan in pubblico, il 28 novembre 1953, alla Maison de Bretagne. Un modello che conserva gelosamente a casa come una reliquia. Il nome stesso “arpa celtica” si deve a Jord che intendeva così raggruppare l'arpa irlandese e quella bardica (o medievale). Jord “Georges” Cochevelou era all’epoca ancora traduttore per il Ministero delle Finanze francesi e il piccolo Alan ricorda perfettamente quel momento: “Quando le tinture, le vernici, il lucido furono secchi, data la cera, la suspense era al culmine. Attendevo con emozione il giorno in cui sarebbe stata tesa la prima corda. Non sapevo ancora che ciò avrebbe determinato l’intera mia vita! Fu un anno dopo, nell’aprile del 1953…”. In quel momento Alan ha da quattro mesi compiuto nove anni, il suo talento si manifesterà subito e presto si esibirà perfino all’interno della Cattedrale di Vannes, suonerà anche biniou e bombarda nelle festoù-noz e nei campionati regionali in duo con Youenn Sicard ed entrerà a far parte della Bagad di Bleimor. Nel 1967 a Benodet sulla terrazza di un ristorante, si stava dilettando a suonare quando un cameriere gli si avvicinò incuriosito chiedendogli: “Cosa stai suonando? Folk americano?” “No, è un tradizionale irlandese arrangiato da Pete Seeger.” Quel cameriere era un giovane di Kemper appassionato di chitarra rock, si chiamava Daniel Le Bras ma dopo quell’incontro inizierà a utilizzare il proprio originale nome bretone Dan Ar Braz. Per ciò che riguarda Jord Cochevelou, può senz’altro riposare in pace nei secoli dei secoli: arpe oggi se ne costruiscono ovunque, fino a Giappone e Stati Uniti. 


Flavio Poltronieri

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1 Da “Digor Eo An Hent” (Il Cammino è Aperto), tratto da “Koroll Ar C’hleze” - Raccolta di testi bretoni contemporanei, a cura di Flavio Poltronieri, 1985.

2 Anche più recentemente, nel corso del Festival Interceltico del 2016, Alan Stivell e Joan  Baez hanno interpretato insieme “Tri Martelod”, che l’anno prima lei aveva già proposto dal vivo nello storico Festival des Vieilles Charrues di Carhaix, nel Finistère.

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