Archeologia sonora: An Namnediz, il primo gruppo musicale bretone

Quando nel 1960 Tugdual Kalvez e Henri Landreau cominciarono a suonare in duo al Circolo Bretone di Nantes, senza un nome, la gente si divertiva a chiamarli ironicamente “Ar Berrloereier gwen-ha-du” ovvero “Calzini neri e bianchi”. Erano i primi a presentarsi pubblicamente in Bretagna senza bombarda o veuze. A far ballare il rond de Saint-Julien-de-Concelles intonando una canzone di Renac, a interpretare bal paludièr di Saillé o Guérande, pilé menu del Pays de Redon e antiche melodie del Pays Nantais accompagnandosi con strumenti giovanili contemporanei quali flauto e chitarra. Un cambio mica da poco, arduo da comprendere per puristi e folkloristi affezionati e orgogliosi delle proprie tradizioni popolari. È indubbio che, anche culturalmente, in quella scelta, una parte di veggenza e di provocazione ci fosse. In fondo la Bretagna era pur sempre la regione francese più derisa e sbeffeggiata dai supponenti atteggiamenti dei parigini e da articoli di giornali e riviste della Grande Capitale. Il pensiero di ricreare un patrimonio di canti e musiche tradizionali delle proprie campagne e montagne non era ancora comune e diffuso come in seguito. Al duo si aggiunse la sorella minore di Tugdual, Gwenola che indossava la minigonna, aveva imparato a cantare in bretone dai nonni paterni fin da bambina e si esibiva già in duo kan-ha-diskan con un’altra cantante di nome Lus Rastell. Quest’ultima a quel punto decise di trasferirsi a Kommanna, nel Finistère occidentale, per apprendere meglio il bretone parlato dalla gente e non quello dei libri, finendo per diventare insegnate bilingue della scuola elementare Diwan di Landerneau. 
Col passare del tempo, Tugdual maturò l’idea che fosse opportuno allargare ulteriormente gli orizzonti costituendo un vero e proprio gruppo musicale. Nel 1964 abbandonarono quindi l’associazione natìa e allontanandosi dal quel Circolo Celtico crearono An Namnediz, al Château des Ducs de Bretagne (Kastell Duged Breizh), luogo storico medieval-rinascimentale, costruito tra il XIII e il XVI, ancor oggi sede di concerti. Diventarono così di fatto, inconsapevoli iniziatori dello storico movimento di rinnovamento della folk-song bretone. Kalvez era rispettoso della tradizione, lo stesso nome scelto riferiva ai suoi lontani antenati armoricani ma in lui altrettanto forte era la spinta a donare alla propria musica nuova espressione artistica, maggiormente corrispondente a psicologia e bisogni attuali dei bretoni. E questo affinché esistessero anche meno ragioni di cercare a Parigi o altrove i riferimenti o le ammirazioni, “colui che vive la tradizione, ne prolunga l’esistenza” sosteneva. Abitavano orgogliosamente l’antica capitale della Bretagna e intendevano se stessi come prolungamento della passata musica popolare del Pays Nantais, al celebre motto dello scrittore e drammaturgo Tanguy Malmanche (1885-1953) “bisogna abbaiare con il cane, ululare con il lupo e parlare bretone”. An Namnediz, precursore della luminosa scena che nei decenni verrà scritta nella regione, venne definito da Polig Montjarret come “la prima pietra di un vasto cantiere”. Se non avanguardia propriamente musicale, Tugdual, Henri e i loro nuovi compagni, Gwenola Kalvez (canto), Luk Thénaud (flauto) e Iffig Poho (basso elettrico) saranno
apripista e testimoni della dinamicità di quella sorgente popolare. Evidentemente avevano intuito che germogli giacevano sotto il sasso del ridicolizzato folklore, che polloni sarebbero nati da ceppi apparentemente immobili e sonnolenti. Ma bisognava uscire dall’idolatria incondizionata nei confronti di una tradizione in preda all’asfissia e farlo senza tranciare le radici vivificanti che ne nutrivano la musica. La Bretagna è quel luogo dove chi pronuncia la parola “Paese” non pensa mai alla Francia, quelli che parlano brezhoneg o gallò, che suonano bombarda o biniou kozh, che ballano gavotte e an-dro, sono sempre stati prima di tutto “militanti” (più o meno consapevoli) di una resistenza di massa contro Parigi. Perché la Bretagna ha il suo “emsav” (“rinascita”, “risveglio”), termine utilizzato fin dalla fine dell’Ottocento e che, dagli anni settanta del secolo scorso, l’intero movimento indipendentista bretone ha fatto proprio. Dalla politica all’ambientalismo, dalla lingua all’educazione, dalla storia antica a quella recente, dalla gastronomia alle arti varie. L’identità è tutto per queste genti, le parole dell’inno bretone lo ribadiscono, la questione essenziale per An Namnediz era intonarsi alla modernità bretone senza sovrastrutture, offrire alla gente musica popolare con lo stesso spirito puro con cui si offre una mela. Tugdual Kalvez dichiarava: “Noi non siamo che suonatori di flauto ma senza noi la Bretagna perde una parte della sua anima, non siamo che strimpellatori di chitarra ma senza noi la Bretagna non sarebbe la stessa domani!” 

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