La storia e le vicende dei nativi canadesi sono meno note di quelle dei loro omologhi statunitensi, ma non meno tragiche, piene come sono di episodi di violenza, sopraffazione, discriminazione fisica e culturale. E se sono passati più di 150 anni dalla dichiarazione/auspicio che a metà Ottocento fece l’allora Primo Ministro canadese John A. Macdonald: “uccidere gli indiani da bambini”, fino a tempi assai recenti la cultura e la memoria dei popoli indigeni sono state sottoposte ad una costante opera di distruzione e marginalizzazione. Nel cercare di imporre i propri modelli socio-economico-culturali, il Canada “bianco” non si è peraltro fatto scrupolo di vietare le cerimonie tradizionali, di reprimere le manifestazioni che rivendicavano i diritti dei nativi sulla terra e sull’utilizzo delle risorse naturali, arrivando perfino a sottrarre i bambini indigeni alle famiglie, per crescerli secondo i propri canoni. Naturalmente questo processo di eradicazione culturale ha interessato anche le lingue delle nazioni indiane, lingue in alcuni casi più antiche del greco di Omero. Fortunatamente però i poco nobili sforzi dei “bianchi” non hanno ottenuto il completo annichilimento della cultura nativa. Ciò anche grazie a persone come Jeremy Pahl, archivista e insegnante di sm’algyax (la lingua della comunità Ts’msyen della British Columbia), ma anche, con il nome d’arte di Hank Saltwater, cantautore, chitarrista e violinista. “G̱al’üünx wil lu Holtga Liimi”, sua ultima opera, è un album tonico ed energetico, in cui Saltwater compie un’operazione inversa rispetto a quella di altri musicisti operanti al confine tra la musica di tradizione e quella d’autore. Egli infatti compone e canta nella lingua sm’algyax, ma adotta stili e generi musicali che usualmente non si associano ai nativi americani. In questo senso il suo primo riferimento è il country, ma le sue canzoni sono anche innervate dal rock, venate di blues, e chiaramente influenzate dai grandi songwriter, primo fra tutti Neil Young. In questo modo Saltwater afferma e dimostra che la cultura indigena è viva, vitale, e che è possibile creare canzoni nelle lingue native facendo proprie forme musicali lontane da quelle tradizionali, in un atteggiamento che, sostiene Pahl/Saltwater, in fondo è quello che gli Ts’msyen hanno sempre assunto in risposta alla colonizzazione. Delle nove tracce dell’album due sono dei tradizionali solo-voce: “Uks Yaan Ḵ’a̱sḵ’oos” e “Goosnł Waals Noon”, e rispettivamente aprono e chiudono l’album (tale collocazione non è certo casuale), altre sei sono scritte da Saltwater, e per lo più raccontano storie e leggende degli Ts’msyen, o ne descrivono i modi di vita e le tradizioni materiali, tra cui le usanze e le credenze associate alle attività di raccolta, coltivazione, pesca e caccia. Non mancano i riferimenti ad avvenimenti contemporanei, come nel caso di “Na Waaba Gwa̱soo”, che parla della violenza delle forze di polizia canadesi nei confronti dei Wet'suwet'en e Gitksan, quando questi popoli hanno rivendicato i loro diritti sui territori in cui vivono. Il processo di riappropriazione e veicolazione della lingua e cultura nativa secondo forme musicali riconoscibili ed accessibili anche al pubblico meno avvezzo ai suoni della tradizione raggiunge infine uno dei suoi punti più alti con la riproposizione in sm'algyax di “My Sweet Love Ain’t Around”, di Hank Williams, che qui diventa “Akadi K’uł Waal Nsiip’nsgu”. Godibilissimo ed originale “G̱al’üünx wil lu Holtga Liimi” nasce dalla collaborazione di Hank Salwater con Danny Bell alla batteria, Liam Mcivor alla steel guitar e, nelle tracce 6 e 7, Chloe Nakahara al violino. Una menzione anche per la bella copertina dell’album, i cui disegni non lasciano dubbi sulla sua matrice culturale. saltwaterhank.bandcamp.com
Marco G. La Viola
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