Mario Poletti – Drum&Bass… and mandolin (Autoprodotto, 2024)

Si potrebbe pensare che il suono del mandolino di Mario Poletti - noto animatore della scena folk italiana con Lou Dalfin e Teres Aoutes String Band - riconduca a un’immagine pura e originale (nel senso di risalente alle origini). Si potrebbe, poi, pensare che Poletti - che è un estimatore delle corde, intento a sondarne tutte le vibrazioni, sia nella scrittura, sia nella performance, sia nella sperimentazione che nella didattica - sia tentato di adagiarsi su quel suono cristallino e fascinoso (“Soul Freire”). Niente di tutto questo: Poletti esplora le musiche attraverso quattro coppie di corde, filtra un’ispirazione obliqua che, se da un lato guarda al popolare, dall’altro abbraccia molto di ciò che ha a che fare con il blues e il jazz, così come con un rock ossuto, scarno, periferico e vitale (“Caballero”). Ci potremmo dire, a questo punto, che le differenze tra questi generi non sono poi così profonde. Non lo sono sul piano culturale: ma ve ne sono su quello esecutivo. E che differenza può fare? Un musicista accorto e sufficientemente permeabile riesce a miscelare, a rendere un buon grado di materia assorbita (“Vaite Saure”). Sì, d’accordo. Ma l’andamento che il musicista cosciente riesce a imprimere al suo lavoro ha qualcosa di diverso. Si imprime in tutta l’esecuzione. E questa inizia a riflettere di una luce diversa, grazie alla grazia che la sorregge (“Veja”). Addirittura, a ben vedere, diviene un’entità che ha ben poco di astratto. Al contrario, si avviluppa a un suono preciso, perfetto, organico nel contesto in cui è pensato e generato. È il fenomeno che si intravvede nella musica di Poletti, che scende in fondo, scava, estrapola e riporta a galla le matrici che vanno oltre il genere, per abbracciare la pienezza del suono, dell’immagine musicale, pura e altrettanto cruda (“I ritorno di Popof”). Così come è il caso di “Drum&Bass… and mandolin”, che vede il mandolinista dialogare con il famigerato drum&bass, accorpato con generosità di suono e vicendevole intesa da Daniele Bianchetto e Marco Piovano. Dopo aver ascoltato l’album, che si compone e ricompone attraverso otto brani scintillanti, si ha l’impressione (piacevolmente paradossale) che Poletti ci inviti a trascorrere un pò di tempo con la musica spontanea. Non nel senso di una musica prodotta solo in estemporanea, ma nel senso di una visione, di un programma che, con congrua ponderatezza, ha elaborato le scelte necessarie (“Barocco”). Non solo eliminando la densità dei suoni: tutti gli strumenti che intervengono, più trasversalmente, a ingrossare una narrativa musicale, addolcendone gli esiti sul piano armonico e timbrico (come i fiati, gli archi, il pianoforte). Ma accorpando l’essenziale e producendo, con basso e batteria acustici, la base per una lente con cui elaborare e ricostituire una base, una punto di partenza. Il paradosso che percepiamo sta proprio nella deformazione irriducibile definita dal trio primitivo (pelle e corda), attraverso cui guardiamo un orizzonte irregolare, a tratti vuoto, sospeso, che diviene sempre più attraente (“Serenata”). La lente attraverso cui guardiamo riesce a bruciare, nel riflesso di un ascolto trascinante, tutto il perimetro, lasciando intatto il tratto centrale, il ritmo sufficiente e il suono senza panico, senza sovraesposizioni. Attraverso quel timbro elevato sopra le circostanze Poletti ci dice di concentrarci sugli incastri, sugli abbracci: su quegli sguardi rapidi che sorreggono il mondo della musica. Siamo senza dubbio in bilico, sospesi a cavalcioni sopra i generi (come dicevamo prima), ma la sensazione più forte è che i nostri piedi dondolino più sopra la terra del blues che del folk (“Funk the mandolin”). Non perché ci siano dei segnali pienamente espliciti a indicarcelo. Ma perché l’atmosfera ci spinge lì, nelle armonie secche, impure, fuori dalla lirica più morbida e mediterranea. 


Daniele Cestellini

Posta un commento

Nuova Vecchia