Lou Dalfin – La Meison (Logo Records, 2024)

Il primo album dei Lou Dalfin risale a più di quarant’anni fa, a quando rimarcare una provenienza musicale così locale non era affatto scontato. Se i primi anni Ottanta, infatti, non erano del tutto estranei a produzioni musicali etniche, legate, come in questo caso, a una prospettiva di identificazione culturale e storica molto marcata, il mondo ne era, in buona parte indifferente, sebbene affascinato. Proprio per questo, i Dalfin - dentro una storia che parte dalla seconda metà degli anni Settanta - rappresentano un caposaldo in un orizzonte che, nel frattempo, si è andato gradualmente definendo: su un piano commerciale, di mercato, così come di studio, ricerca, divulgazione. Il quadro in cui si muove questa band occitana - che si può localizzare, sin dalle sue origini, nelle valli piemontesi - è, inoltre, ancora più interessante. Perché, con il passare del tempo, si arricchisce di elementi intermedi, che richiamano, da un lato, una tradizione espressiva pregna di strumenti, suoni, storia, politica e dialetto (appartenenza linguistica, oltre che “simbolismo” sonoro), mentre dall’altro a una porzione rilevante dell’espressionismo musicale indipendente, che prende forma, in maniera più compiuta, nello scorcio (miracoloso) degli anni Novanta, depositando un composto molto concreto ed efficace: resistente quanto elastico. È in questo periodo, infatti, che lo strato strumentale che più identifica l’indipendenza della band si mischia con uno strato più composito, formando una mistura avvolgente di folk-rock indefesso e inequivocabile. Non è un caso che, seguendo con convinzione questa traiettoria, il gruppo - capitanato dal fondatore Sergio Berardo - riceve il Premio Tenco per il miglior album in dialetto. Siamo nel 2004 e la coscienza collettiva è molto più vicina alla musica etnica internazionale: la world music è esplosa. Ma siamo anche difronte a un riconoscimento straordinario, che ingrossa il corpo italiano della musica di ispirazione popolare. E che, soprattutto, pone i Dalfin - e non solo “L’Oste del Diau”, il loro album vincitore - al centro della stessa attenzione (di critica e pubblico) che, una ventina d’anni prima, aveva sanzionato (per la prima volta nella storia della canzone d’autore italiana) che “Creuza de Ma” era il capolavoro etnico di De Andrè e di tutta la grande tradizione che, a modo suo, rappresentava. Insomma, tutto questo per dire che questo nuovo album, dal titolo romanticissimo e politicissimo “La Meison”, non è solo un ulteriore prova della capacità narrativa di una band ormai veterana. Ma rappresenta - in ragione della tenuta di una band che, dentro un instancabile dinamismo, mantiene fermi i principi avvolti in quell’idea composita di appartenenza - la soluzione per narrare, rappresentare, un incrocio inevitabile di storia e presente, di lontano e vicino, di forte, crudo, e di poetico. Non si può non riconoscere che il punto in cui confluisce questo insieme ordinato di canzoni - quattordici in tutto - si rispecchi, inevitabilmente, nei tanti punti che lo hanno preceduto (ghironda, organetto, flauti, cornamusa, fisarmonica, batteria, chitarre, mandolino, bouzouki, banjo, basso). Non perché vogliamo, a ogni costo, rappresentarne la corposità - cioè un’immagine di completezza legata alla maturità, all’esperienza. Ma perché emana, in ogni incastro, sicurezza, oltre che bellezza. E, soprattutto, esigenza: cioè voglia di dire, di dire facendo, di ricondurre le storie che racchiude a un insieme di paradigmi che sono lì. E che, per essere compresi, è lì che devo essere ricollocati. In questo senso, sono molto rappresentativi alcuni passi che si leggono nelle note descrittive dell’album, a cui, con convincente semplicità e ad anni luce da una strategia retorica localistica o tradizionalistica, la band affida una prima presentazione: “siamo partiti, all'inizio del percorso, come semplici suonatori che si ricollegavano alle proprie radici per riprodurre gli antichi canti e le danze tradizionali e, un pò per volta, su questa "rota", senza quasi rendercene conto abbiamo visto cambiare completamente la nostra musica, diventare la danza-canzone che tutti ormai conoscono, nelle valli”. Insomma, siamo invitati a entrare a casa loro: ancora una volta. 


Daniele Cestellini

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