La musica possibile nell’opera di Cesare Pavese

Nonostante non tratteggi ruoli significativi nella sua scrittura, Cesare Pavese ha alcune volte evocato la musica all’interno di poesie o romanzi, perlopiù senza specificarne chiaramente la forma. Tra le righe dello scrittore, alcuni personaggi come Talino o Masin suonano occasionalmente la chitarra durante i festeggiamenti paesani oppure sognano di guadagnarsi da vivere facendolo sulle navi, tuttavia sarà Pablo, il protagonista del romanzo cittadino “Il compagno” (1947), a dichiarare, in verità, un po’ ermeticamente fin dalla prima riga «Mi dicevano Pablo perché suonavo la chitarra». Per contro non verranno poste dall’autore, nello svolgersi del racconto, reali precisazioni sulle specifiche esecuzioni sonore del suo strumento. Ma è soprattutto nell’ambito del romanzo contadino “La luna e i falò” (1950) che la figura fondamentale di Nuto appare assai più legata a quella del proprio clarino. Nuto è un personaggio reale: si tratta di Pinolo Scaglione, uomo a cui Cesare è stretto da affetto profondo, ciò nonostante, ancora una volta, la sua musica non ha affatto contorni chiari. È altamente improbabile che il riferimento fosse al jazz o al blues, che Pavese ha invece esplicitamente citato fin dai titoli in due componimenti contenuti in “Blues della grande città: A solo, di saxofono” (1929), nel quale la sua vita viene fatta scomparire «nel vortice del suono» mentre «[…] le note si afferrano più acute / nell’aria, contorcendosi» e l’anima «rabbrividisce e trema e s’abbandona / al saxofono rauco»); e Jazz melanconico (1929), dove «ululano frenetici / nell’abbandono triste / i suoni più gioiosi». Oppure ancora ne “Il Blues dei blues” (1931) dove i rimpianti per il tempo passato e la ragazza di allora, si mescolano con quello dell’ascolto di un disco di blues. Nel corso dell’opera letteraria di Pavese anche Masino (all’anagrafe Tommaso Ferrero), pur non sapendo suonare uno strumento, sogna di comporre «una canzonetta da dopoguerra», idea «entrata in quell’anima sensibile a rifarla dei torti dell’esistenza». La canzone nel suo
immaginario dovrebbe intitolarsi “Il Blues delle Cicche”. Della canzone non se ne farà niente in quanto il Maestro che doveva musicarla più che in forma blues, in disaccordo, l’avrebbe intesa semmai come una tarantella. In “La luna e i falò” è la figlia maggiore del sor Matteo, il padrone della cascina della Mora, a suonare magnificamente il pianoforte classico e il personaggio autobiografico di Anguilla racconta di essersi reso conto, fin da bambino, che quella musica di Irene sopra i tasti era ben altra cosa rispetto a quella che ascoltava la povera gente, figlia della campagna come lui. Ne misurava insomma la distanza sociale. E allora che sonorità intendeva Pavese quando gli capitava di ambientare le sue parole durante feste danzanti sull’aia o in collina o citare bande musicali? Probabilmente, come si diceva, non il jazz ascoltato a Torino durante i salotti o gli eventi culturali. Il jazz apparteneva all’ambiente intellettuale cittadino, era da poco giunto dagli Stati Uniti e il capoluogo piemontese rappresentava una fra le città italiane più sensibili ai nuovi suoni. L’amico musicologo Massimo Mila gli prestava i dischi e in una lettera del 1931 Pavese si complimentava con lui per aver pubblicato sulla «Rassegna musicale» un saggio dal titolo “Canzoni e musiche di cinematografo”. In quegli anni ebbe inoltre a intrattenere un fitto rapporto epistolare col violinista Antonio Chiuminatto, che viveva in America e a cui saltuariamente chiedeva di argomenti musicali; frequentava poi Carlo Pinelli che per la musica aveva interrotto i propri studi. Si era, poco più che ventenne, anche innamorato della pianista Giuditta Ciliberti Tallone, detta Ponina, alla quale scrisse una volta in una lettera di stare ascoltando Beethoven, senza dimenticare che pure Fernanda Pivano, mentre studiava per il suo diploma di pianoforte conversava con lo scrittore, esaltando Bach e disprezzando Chopin. 

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